Ricordo di Franco Girardi

di Alessandro Montebugnoli

Per quanto i fatti urbani mi appassionino, non sono un urbanista. Altri, molto meglio di me, diranno il contributo di Franco alla disciplina che tanto lo impegnava. Spero che lo facciano.Io, nella posizione privilegiata di ‘non urbanista’, mi limito a ricordare due o tre episodi che ci hanno visti assieme.

Il primo è la presentazione del suo libro Immaginazione di Roma, in Campidoglio, sala della Piccola Protomoteca. Credo che fosse il 1994. C’erano Walter Tocci, allora vicesindaco, Bruno Tobia, qualche altro del quale potrei sbagliare il nome (forse Marcello Musté). E’ un episodio che ricordo con piacere, e anche con un certo orgoglio, perché la pubblicazione del libro (Gangemi) era stata resa possibile dalla sponsorizzazione di Area, una minuscola cooperativa che allora presiedevo.

Immaginazione di Roma, naturalmente, rinvia a Quaroni, Immagine di Roma. Ma l’impronta del libro di Girardi è personalissima, affatto originale. Il tratto saliente, direi, è un atteggiamento di sovrana disponibilità nei confronti dei dati materiali – fisici, economici, anche sociali. Le idee che vi sono contenute – ridurre l’attico del Vittoriano, deviare una parte del corso del Tevere dove adesso esiste Centocelle, altre della stessa radicalità – neppure si pongono il problema di essere ‘fattibili’. Amalia Signorelli, in occasione di una successiva presentazione, a Napoli, ha detto bene la perplessità generata da un tale livello di disinvoltura. Eppure. Le idee contenute nel libro sono un ‘punto di vista’. Si possano fare o non fare, ottengono che guardiamo alla realtà con occhi diversi, meno assuefatti al modo nel quale si presenta. Io, per dire, non posso più guardare il Vittoriano senza immaginare, appunto, che lasci vedere uno scorcio, almeno, del colle che c’è dietro; non posso più guardare il Tevere senza pensare che è un fiume intombato, e oggi magari no, ma ieri era possibile un esito diverso. Comunque, il libro è proprio bello: scritto in modo elegante e rapido, pieno di cultura, con quei suoi disegni tanto nitidi. Per parte mia, ripeto, ci ho imparato un sacco di cose. E un’idea intelligente, insisto ancora, specie se argomentata con dovizia di particolari e di argomenti storici, ha pur sempre il valore di fertilizzare la mente di chi legge.

Il secondo episodio è pressocché coevo. Franco mi aiutò in occasione di uno studio sul Rione Sanità, a Napoli, che il Sindacato pensionati della Cgil aveva commissionato ad Area. Si trattava di immaginarvi (di nuovo) la realizzazione di uno ‘spazio di servizi integrati’, secondo un’ipotesi di lavoro in gran parte dovuta ad Alberto Malavolti, che in’occasione pubblica (al Jolly Hotel, in una mattinata bellissima, con vista sul golfo) avevamo discusso anche con Vezio de Lucia, traendone motivi di conforto. Insieme a Franco e a me, erano della partita Silvia Chiaromonte, Fulvia D’Aloisio, Bruno Roscani e Antonia Strazzullo.

Battemmo il quartiere palmo a palmo, parlando con tantissime persone. In questo caso, niente che non fosse ‘fattibile’: se ne aveva l’opportunità, Franco sapeva stare con i piedi piantati per terra. O anche sui tetti. Dico così perché qui voglio ricordare un episodio nell’episodio che pure, mi pare, dice qualcosa circa il suo carattere. E’ capitato che qualche volta egli si sia mosso da solo, o meglio, accompagnato soltanto da un funzionario dello Spi locale. E proprio quest’ultimo – del quale non ricordo il nome – mi ha raccontato poi, divertito, come Franco lo avesse costretto a bussare alle porte di tante case perché aveva deciso che quel particolare terrazzo condominiale, quel particolare aggetto, in cima a quell’edificio, era il posto migliore dal quale scattare le fotografie che gli servivano per ricostruire il panorama del quartiere. Eccolo quindi entrare negli appartamenti e poi arrampicarsi tra selve di antenne televisive, del tutto incurante della perplessità che suscitava in chi assisteva alla scena. Di nuovo, direi, un dato di disinvoltura: il suo accompagnatore era imbarazzatissimo, si scusava mille volte; Franco no, trovava del tutto naturale quello che faceva e dava per scontato che le famiglie del quartiere avessero motivo di aprirgli le porte, fargli attraversare cucine, salotti e camere da letto, guardarlo mentre lavorava. In un certo senso, ‘pretendeva’ che fosse così – per la speranza, provo a interpretare, che nutriva nell’intelligenza delle persone, nella possibilità di rapporti semplici e civili, senza tante storie, solo che si chiedano cose ragionevoli.

Comunque, le fotografie sono molto belle e molto ben commentate, come si può vedere nella pubblicazione (Gangemi) che ha raccolto i risultati del suo e nostro lavoro.

L’ultimo episodio è la pubblicazione della Storia dell’INU, che con Bruno Roscani ho aiutato Franco a portare a termine. In particolare ricordo la presentazione del volume, al Centro congressi dei Frentani, presenti (spero di non ricordare male) Amalia Signorelli, Simone Ombuen, Antonio Tamburrino, Vezio De Lucia. E’ un ricordo più doloroso: Franco stava già male, era presente, e intervenne, ma come avvolto in una nebbia.

Vezio, in quell’occasione, se ne è uscito in un modo che mi è rimasto impresso. Parlò dell’“innocenza” di Franco; anzi, a essere precisi, affermò che Franco, tra tutti noi, era l’unica persona che custodisse il bene (o il limite, difficile dire) dell’“innocenza”. In un senso che non riesco a mettere a fuoco come vorrei, credo che sia vero. Il suo rapporto con la realtà era tanto intenso, appassionato, quanto, in certo modo, ‘sospeso’. Temo che avesse in mente un ‘rigore’ che non è di questo mondo – ma senza il quale, a farne proprio a meno, il corso ordinario delle cose, con tutte le sue bruttezze, e miserie, avrà sempre la meglio.

Non c’è stato un ultimo saluto. Sia questo.

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