Capire il carattere della crisi, agire gradualmente e selettivamente, accettare la parzialità

04/03/2013
Patrizia Gabellini riflette, partendo dall’osservatorio della città di Bologna, sul ruolo della disciplina urbanistica e sulle pratiche pubbliche a questa connesse nella contemporaneità. Il testo è inserito nel volume collettaneo Città e politiche in tempo di crisi, curato da Laura Fregolent e Michelangelo Savino, per i tipi della Franco Angeli, Milano 2013, che ringraziamo per l’autorizzazione a pubblicare il testo:

Capire il carattere della crisi, agire gradualmente e selettivamente, accettare la parzialità

Patrizia Gabellini

Una crisi nella crisi

Vorrei partire da pochi dati, rappresentativi della crisi economica e sociale, che più direttamente impattano sull’urbanistica bolognese:

– gli oneri di urbanizzazione sono passati da circa 22 milioni nel 2007 a poco più di 12 milioni e mezzo nel 2011[1] 1, con il fenomeno della “rinuncia” a permessi di costruire già rilasciati che, negli ultimi 4 anni, ha inciso per circa 6 milioni di euro;

– importanti operazioni urbanistiche che, avendo concluso l’iter autorizzativo, potrebbero avanzare nella realizzazione, rallentano o procedono attraverso stop and go, ma soprattutto “a vista”, valutando di volta in volta quale possa essere il passo successivo e con quali aggiustamenti rispetto a quanto si era previsto in partenza[2];

– le iscrizioni alle liste comunali per l’assegnazione di un alloggio di edilizia residenziale popolare sono passate da 5.465 nel 2007 a 9.967 nel 2012, con un aumento di oltre l’82%, mentre quelle per un alloggio a canone calmierato, dopo una crescita fino al 2009, sono tornate ai livelli del 2006 (1.587). Le domande complessivamente riguardano oltre 25.000 persone[3].

Sono pochi indicatori che segnano il passaggio da un ciclo edilizio che ha fatto registrare i valori di produzione più alti dal secondo dopoguerra, ad un altro (il sesto secondo il Cresme) che ha segnato un importante calo di investimenti e di prezzi a fronte della riduzione di compravendite[4].

Alla straordinaria fase espansiva, durata oltre dieci anni a partire dal 1995, ha corrisposto la definizione di un doppio livello (strutturale e operativo) della pianificazione comunale che doveva consentire maggiore flessibilità sganciando la strategia territoriale, di durata a priori indeterminata e rivedibile secondo necessità, dalle scelte attuative cadenzate nel tempo, riferite alle disponibilità degli operatori di attivarsi e alle possibilità di investimento pubblico[5]. In quella stessa fase si è concepita la perequazione urbanistica che, introducendo il trasferimento dei volumi in cambio di dotazioni pubbliche, sottintendeva un’ampia disponibilità ad assorbire quei volumi, dunque un mercato in espansione[6].

I richiami al turning point del mercato immobiliare e i rapidi cenni ai due grandi temi che hanno occupato l’agenda urbanistica degli ultimi lustri mi aiutano a delimitare l’ampia questione della crisi, cominciando col sottolineare che la “riforma urbanistica”, parzialmente tradotta in alcune leggi regionali e anticipata nelle pratiche urbanistiche, era ancorata al presupposto della crescita e alla connessa volontà di ridistribuire le plusvalenze di quella crescita, di compensarne gli squilibri, di mitigarne gli effetti negativi.

Nel secondo decennio del Duemila, costringono a un radicale ripensamento sia la percepibile (e non solo preconizzata) decrescita, quello shrinking che ha fatto la sua comparsa in forma plateale già decenni orsono in alcune città del nord America[7], sia l’evidente crisi ambientale e gli effetti del cambiamento climatico che l’accentuano. Per questo la mia ipotesi è che non si tratti tanto di una crisi di ruolo o di senso dell’urbanistica, quanto di una crisi di rappresentazione delle dinamiche presenti e degli scenari futuri e, semmai, di una strumentazione urbanistica concepita in un’altra stagione dell’economia, caratterizzata da forti aspettative nei confronti della crescita. Paradossalmente, proprio il fenomeno del restringimento urbano e le operazioni forzosamente limitate e discontinue di rigenerazione, assieme alla velocità delle trasformazioni nei modi d’uso del territorio e alla mutevole mappa delle aree in declino, richiedono più urbanistica, ovvero maggiore capacità di osservare e decifrare i fenomeni che si manifestano nelle città e nei territori, di interpretarne genesi e prospettive, di individuare azioni e politiche adeguate, di aggiustare e innovare strumenti e procedure.

Non solo più urbanistica, ma anche un’urbanistica modellata sulla necessità di risparmiare risorse e crearne di nuove, capace di coniugarsi con le politiche ambientali ed economiche: una evidenza perfino banale, della quale però non mi sembra esserci sufficiente e diffusa consapevolezza, comunque tale da mobilitare tutte le risorse – cognitive e immaginative prima che economiche e sociali indispensabili per affrontare un cambiamento di tale portata. Ricondurre il problema a una crisi tout court dell’urbanistica, peraltro ripetutamente proclamata anche in passato, mi sembra restringere enormemente il campo degli interlocutori interessati, deviando l’attenzione dalle questioni di fondo alle preoccupazioni di un gruppo di esperti.

Rigenerazione urbana come resilienza

Se si assume la prospettiva della rigenerazione urbana, operando un cambiamento non solo lessicale – rigenerazione anziché riqualificazione, recupero o altro -, ci si deve riferire alle condizioni generali e adattarsi al contesto specifico[8].

Per quel che riguarda le condizioni generali, oggi ci si trova ad agire la rigenerazione in una situazione di cui è assai difficile prevedere gli sbocchi, ma soprattutto dovendo prendere atto del deficit ecologico, ossia della erosione delle risorse (suolo, acqua, energia) che il sistema è in grado di produrre rispetto al carico (domanda e fabbisogno), e dei cambiamenti climatici che esaltano gli effetti del deficit fino a renderli spesso disastrosi. Rigenerare città e territori adeguandosi alla scarsità e attivando processi resilienti è la condizione inedita che genera grandi difficoltà, benché sembrino acquisiti i capisaldi di una città ecologica[9].

Le politiche urbanistiche, se abbinate alle politiche ambientali, prefigurano un diverso modello di sviluppo e comportano una coraggiosa revisione di convincimenti radicati e modi di intervento collaudati, alcuni dei quali appaiono già piuttosto stressati.

– La crisi del settore immobiliare, associata all’aumento dell’offerta di aree dismesse (aree militari, aree ferroviarie e ancora altre aree industriali), rende impossibile la rigenerazione rimanendo entro la logica della ricostruzione e dell’infilling. Semplicemente perché non c’è offerta assorbibile che consenta di riusare tutte le aree disponibili (senza dimenticare che l’immobiliare non e’ motore di sviluppo, come gli stessi economisti riconoscono). Si dovranno mettere in campo, come vera e propria strategia, sia proposte di usi temporanei, possibilmente generatori di lavoro e reddito in attesa di prospettive più stabili e compiute, sia processi di rinaturalizzazione, nell’accezione della neo-forestazione e della neo-agricoltura.

– La dispersione urbana, gli insediamenti sparpagliati sono un dato che nessuna densificazione, nessun ricompattamento potrà risolvere in toto[10]: si tratterà comunque di operazioni parziali, distribuite qua e là. Le città contemporanee sono formazioni urbane porose, aperte, articolate, costituite da catene discontinue di parti costruite e spazi aperti. Vanno lavorate per quello che sono: nuove città in formazione che mescolano urbano e rurale[11].

– La competizione fra città non è più attuale nei termini nei quali è stata concepita e praticata negli anni della crescita: una gara giocata da tutti attorno ai medesimi parametri. Va invece ripensata come messa in valore delle peculiari risorse e capacità, quindi come “conversione intelligente”, potremmo anche dire come modo proprio di essere smart[12].

– La rigenerazione di attività e servizi catalizzanti e nodali, delle grandi funzioni di scala sovra locale (fiere, tecnopoli, stadi, auditorium, ospedali …), va risolta in situ. Questo orientamento non è dettato tanto e solo da buone regole di vitalità urbanistica (la cosidetta mixité), quanto dalla necessità di risparmiare suolo non urbanizzato e poi da crisi endemiche del mercato che rischiano di lasciare incompiute operazioni fuori scala e avviate a sbalzo, oppure “cadaveri” irrecuperabili nel sito originario. Occorre considerare che il decentramento è stato uno dei fattori della dispersione, quando non accompagnato da una adeguata infrastrutturazione e complessificazione[13], e che il “core” delle nostre aree metropolitane non è sempre così robusto da potersi privare di attività qualificanti e attrattive. Il policentrismo in Italia ha assunto le sembianze della diffusione. L’idea guida della manutenzione e razionalizzazione in situ deve sostituirsi a quella del decentramento, la cura estendersi all’intero territorio[14].

Si tratta, allora, di assumere con convinzione la prospettiva di una nuova forma della città contemporanea, ecologica e produttiva, costituita da pattern molto diversi per popolazioni, pratiche d’uso, economie[15], di individuare gli obiettivi operabili in questa fase, di mettere a punto gli strumenti rivedendo in parte quelli esistenti. Ciò vale per le città allargate, le città metropolitane e quei sistemi urbani che, proprio per le interrelazioni che li caratterizzano, richiedono politiche consonanti. E vale per gli insediamenti sparsi, quell’insieme informe, ma quasi sempre plurifunzionale, che la diffusione insediativa ci ha lasciato[16]. Da concepire, gli uni e gli altri, come spazi abitabili che intercalano parti dense, dove prevale il costruito, e spazi aperti, che includono le tante forme del green. Un territorio dove la rigenerazione deve essere declinata in modo opportuno, senza indebite omologazioni.

Bologna città metropolitana: linee di lavoro

Bologna, una delle dieci città metropolitane battezzate dal decreto legge del 6 luglio 2012 e confermate dalla legge n. 135 del 2012[17], si trova in posizione cruciale nel paese, è caratterizzata da una grande varietà di paesaggi urbani, con tanti nuclei storici importanti e riconoscibili, con presenze produttive e di servizio distribuite nel territorio, inframmezzata da ampi spazi aperti che sono sia aree di valore ambientale sia aree agricole, di pianura e di collina. Il rimescolamento della popolazione per processi migratori e l’uso allargato del territorio (migranti aggiunti ad abitanti temporanei come studenti, uomini d’affari e fruitori di servizi) hanno rotto antichi equilibri[18]. Analoghi processi, che si sono manifestati prima nelle aree metropolitane maggiori, hanno investito Bologna con effetti di disagio a macchia di leopardo: nelle grandi e piccole aree dismesse in primo luogo, ma anche in alcune delle tante aree verdi, parchi e giardini, che contraddistinguono la città costruita nel secondo dopoguerra, poi nel centro storico. Lì si concentrano le azioni di riqualificazione della nuova amministrazione che si è insediata nel maggio 2011.

Il Piano strutturale (Psc) approvato nel 2008, benché forzosamente comunale, ha proposto un’idea di città metropolitana quando ha costruito una diversa immagine di Bologna: non città con una periferia, bensì città di città, ovvero territorio urbano diversamente articolato per forme insediative, attività, popolazioni insediate e pratiche d’uso. Le 7 città di Bologna non erano un orpello o una trovata comunicativa, bensì la presa d’atto di un territorio aperto dove la città capoluogo si integra con altri centri urbani contermini originando una diversa formazione urbana[19].

Già nel settembre 2009 era iniziato il percorso per la formazione di un piano strategico che delineasse il futuro possibile di questa area. Un mandato amministrativo interrotto dopo pochi mesi e una successiva gestione commissariale della città[20] lo hanno sospeso e solo nel 2012 un Comitato, costituito dal Comune Bologna, dalla Provincia, dalla Regione e da numerosi altri enti ed associazioni di categoria, ha avviato i lavori per il Piano strategico metropolitano[21].

Il Piano strategico è certamente il luogo dove rileggere la rigenerazione urbanistica tratteggiata dal Piano strutturale, conferendole senso compiuto in una visione territoriale integrata. Intanto, però, coerentemente con quella prospettiva procedono alcune iniziative, graduali e selettive, volte a mettere in moto nuove politiche urbanistiche e a disincagliare alcuni radicati convincimenti.

Riqualificazione diffusa. Ormai da parecchi anni ci occupiamo delle grandi aree dismesse, anche per il loro estendersi in posizioni cruciali dove creano voragini che moltiplicano i problemi di gestione delle città. Le loro caratteristiche (inquinamento del suolo e, spesso, tutele estese delle Sovrintendenze), a fronte delle attese degli operatori tradizionalmente polarizzate sui suoli urbanizzabili liberi, magari con opzioni utilizzate quali garanzie dalle banche, fanno sì che si allunghino le attese di riuso, che i bandi per la valorizzazione del patrimonio pubblico vadano deserti.

A Bologna, dove l’estensione e la localizzazione delle aree dismesse condiziona pesantemente le possibilità di ristrutturazione urbana, si è già provveduto a includerle come ambiti di sostituzione nel Piano strutturale: alcune di queste sono anche comprese nel Piano operativo (Poc) e interessate dall’elaborazione dei piani attuativi[22]. Tuttavia, si verifica ciò cui accennavo all’inizio: un procedere a rilento, con interruzioni e incertezze anche perché il mutare delle condizioni al contorno rende in qualche caso necessario rivedere quantità e destinazioni d’uso.

Questo stato delle cose ha motivato l’apertura di un fronte parallelo, diverso nella sostanza e nella forma, col lancio del “Programma per la qualificazione del tessuto urbano”, finalizzato all’elaborazione di un Poc specifico per convogliare gli interventi nel Territorio urbano strutturato, in particolare negli Ambiti storici, consolidati e di qualificazione diffusa[23]. In questa ampia parte del territorio comunale, tipicamente “strutturata” e “qualificata”, l’attuazione è affidata al Regolamento urbanistico edilizio (Rue), ma con limiti dimensionali[24] pensati per gli interventi edilizi ricadenti in ambiti per i quali non è previsto Poc, limiti che impediscono di fatto operazioni di recupero microurbanistico e favoriscono lo smembramento degli interventi, con risultati insoddisfacenti per la qualità dell’opera in sé e per la possibilità di migliorare le dotazioni di servizi e attrezzature pubbliche. Applicando le regole degli strumenti vigenti, con la sola rimozione del tetto dimensionale stabilito dal Rue[25], e assumendo come riferimento per la valutazione delle proposte le indicazioni presenti nelle “Situazioni” che, nel Psc di Bologna, hanno raccolto e messo a sistema i bisogni legati al miglioramento dello spazio pubblico nelle sue diverse articolazioni (percorsi, parcheggi, spazi verdi e piazze, servizi …)[26], il Programma intende favorire una riqualificazione urbanistica capillare senza investire nuovi suoli, con la realizzazione di ambienti ad elevate prestazioni dal punto di vista energetico, della sicurezza e della permeabilità dei suoli. Assume, come scommessa, la possibilità di agire in una fase nella quale gli investimenti nel settore edilizio sono in forte calo anche per la loro totale dipendenza dal credito bancario.

Gli obiettivi di miglioramento ambientale posti a base del “Documento guida” che istruisce l’elaborazione dei progetti[27] e la contemporanea predisposizione del Piano d’azione per l’energia sostenibile (Paes), stilato secondo le indicazioni dell‘Unione europea per i comuni aderenti al Patto dei Sindaci[28], conferisce al Programma una decisa impronta rigenerativa. Infatti, l’obiettivo del Paes è ridurre anche a Bologna le emissioni del 20% rispetto all’anno base 2005, il che comporta un abbattimento di circa 500.000 tonnellate all’anno di CO2. L’obiettivo si può raggiungere con le 109 azioni identificate, ma se alcune dipendono in modo diretto dal Comune (inerenti l’illuminazione pubblica e il consumo energetico negli edifici comunali, ad esempio), la maggior parte riguarda in maniera diffusa altri soggetti, collettivi e singoli, che operano sul territorio[29]. Il percorso di concertazione, intrapreso nella primavera del 2012, ha in effetto coinvolto un centinaio di portatori di interesse fra associazioni di categoria ed economiche, ordini professionali e singole aziende, e si è chiuso con la firma in ottobre di un protocollo che rappresenta la base su cui impostare specifici progetti che stanno prendendo progressivamente corpo[30].

La combinazione con il Paes del Programma per la qualificazione (identificato come “Poc diffuso”) sposta l’attenzione non solo sulle dismissioni minori, ma in generale sul deperimento del patrimonio costruito dall’immediato dopoguerra fino a tutti gli anni Settanta del secolo scorso, in particolare sul progressivo degrado di quello realizzato in cemento armato e prefabbricato, su un patrimonio particolarmente energivoro, densamente abitato e in gran parte in regime di proprietà, che sta progressivamente tracollando[31].

I conti economici sui casi di adeguamento energetico mostrano la grande complessità di interventi di recupero che, per essere efficaci, devono investire diverse parti dell’edificio rendendo difficile o addirittura impossibile la permanenza degli abitanti all’interno, e prospettano la convenienza della demolizione con ricostruzione (cosa che in alcuni comparti è avvenuta e sta avvenendo). Per molti versi si tratta di problemi simili a quelli messi in luce dagli interventi di recupero dei centri storici, promossi con ampio dibattito a cavallo degli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso. Considerando l’estensione di questo patrimonio, dove si sono raccolti i risparmi di tante famiglie, dei ceti medi e popolari, per le quali si sono creati strumenti fiscali che non sembrano efficaci ai fini della riqualificazione urbana[32], si evidenzia una emergenza meno appariscente, ma non meno impegnativa di quella rappresentata dalle aree dismesse.

La riqualificazione diffusa, che comporta recuperi, demolizioni con ricostruzioni, densificazione e creazione di spazi pubblici ha bisogno di progetti urbani che investano in modo capillare il territorio, dove la perequazione/compensazione dei volumi si combini con quella delle dotazioni pubbliche. Richiede pacchetti coordinati di strumenti e un progetto guida sufficientemente elastico, soprattutto un modus operandi certamente diverso da quello messo a punto nella stagione del grande progetto urbano. In particolare, la riqualificazione diventa rigenerazione e si incammina sulla strada della resilienza se si applica in modo specifico a un diverso modo di intendere l’adeguamento infrastrutturale.

Se per la mobilità occorre puntare sulle opere minori e di raccordo, finora ampiamente ignorate per l’attenzione polarizzata sulle grandi opere, va aperto con decisione il fronte dell’infrastrutturazione per la raccolta, distribuzione e depurazione delle acque, con una articolata gestione che concili i consumi per gli usi urbani e per quelli irrigui. Poi infrastrutture per la raccolta differenziata e il riciclo dei rifiuti, oltre a quelle già citate per la produzione di energie rinnovabili. Sono diversi campi di lavoro che rientrano a pieno titolo tra le politiche urbane da tenere assieme, ma che scontano i ritardi dovuti al mancato riconoscimento del loro carattere strategico. Benché il Rue di Bologna abbia dato le regole e previsto incentivi per il risparmio di acqua e il riuso delle acque grigie, l’aumento delle aree permeabili e la creazione di casse di espansione, lo sviluppo della massa arborea, l’estensione delle reti energetiche e l’integrazione delle rinnovabili, si sta lavorando per dotarsi degli strumenti necessari a rendere operativi quegli orientamenti estendendoli agli interventi di riqualificazione, per mettere in sinergia agenzie e istituzioni tra cui sono divise le competenze in materia. Ed è operazione tutt’altro che semplice.

La riqualificazione del sottosuolo e soprasuolo interessa quell’in between che può cambiare la città e a Bologna coinvolge un sistema di verde pubblico che la pone ai vertici del panorama nazionale in termini di dotazioni pro capite e di fruibilità: 1.200 ettari, pari all’8% della superficie comunale, cui si aggiungono 18.500 alberi lungo strada. A partire dagli anni Sessanta è andata avanti senza soluzione di continuità una politica di acquisizione alla proprietà e all’uso pubblico di parchi e giardini, ma i costi assai elevati di manutenzione, le restrizioni della spending review assieme a pratiche d’uso scorrette che richiedono l’impiego di risorse straordinarie, costringono a un ripensamento. All’ampliamento del patrimonio interamente affidato alla gestione pubblica deve sostituirsi un’attenta riqualificazione dei singoli spazi con la razionalizzazione della spesa (anche attraverso nuove forme gestionali che presuppongano sussidiarietà e volontariato) e la messa in rete delle aree attraverso collegamenti, pedonali e ciclabili, che ne consentano la piena fruizione. Un vero e proprio piano di gestione che verrà sviluppato nel 2013, a cominciare con l’adeguamento del Regolamento del verde alle nuove condizioni e che potrebbe includere l’uso temporaneo degli spazi aperti interni alle aree dismesse intercluse.

Agricoltura urbana. Il suolo che si recupera deve avere un futuro. Ma deve averlo anche quello che si risparmia. Ne consegue la necessità di saldare il tema della rigenerazione urbana con quello della agricoltura periurbana e della rinaturalizzazione/riforestazione[33], quindi anche con lo sviluppo di nuove attività economiche. Non significa ritornare al passato, come dimostrano le nuove modalità di coltura bio, i soggetti coinvolti (nuovi contadini, giovani e magari con alle spalle lavori in altri settori), le integrazioni con altre attività (di ristoro, didattiche, commerciali). Si tratta di includere la nuova agricoltura (biologica, multifunzionale, sociale) nell’economia urbana e nella rigenerazione degli insediamenti metropolitani[34]. Una politica come quella annunciata dal decreto “salva suolo”, interrotto nel suo iter, dovrebbe coniugarsi con le politiche urbane per un progetto congiunto di resilienza e autonomia alimentare. Infatti, una compatibile compresenza di diverse attività economiche è condizione fondamentale della resilienza. La tecnologia, in questa direzione, può dare soluzioni inedite e va utilizzata in profondità.

Un orientamento di questo tipo si traduce a Bologna nelle proposte per i cunei agricoli di pianura e per la collina, oggetto da oltre cinquanta anni di un’attenta amministrazione dell’urbanistica sotto forma di tutela. Ora, però, non è più tempo di difendere, neppure di mantenere, ma invece di favorire processi estesi di rinascita. Era questo il progetto della Città (metropolitana) della collina incluso nel Psc che, a distanza di alcuni anni, si dimostra centrato e in divenire. Attività dei nuovi contadini con un’agricoltura a kilometro zero e prodotti tipici, iniziative dove nuove economie e cultura del territorio si fondono, riapertura di percorsi centenari che attraversano in lungo e in largo la collina riconnettendo il mosaico delle architetture e dei paesaggi, il succedersi di iniziative ed eventi organizzati per incanalare l’interesse a conoscerla e frequentarla, manifestano una dinamica che va sostenuta e messa a sistema. A questo scopo si è costituita una struttura di lavoro, interistituzionale e intersettoriale, incaricata di promuovere e coordinare le diverse iniziative in corso, la cui missione è stata riassunta nel motto “la collina chiama la città”.

Attenzione alle aree centrali. Le aree centrali, delle città metropolitane in primo luogo, sono sottoposte a un’inedita pressione dovuta all’afflusso di popolazione temporanea, ma sono anche una risorsa per i flussi turistici globali. Oggi chiedono nuova attenzione. Il centro di Bologna è uno dei più grandi d’Europa, con una estensione di oltre 400 ettari, circa 54.000 abitanti residenti e 83.000 presenti giornalmente. Chiaramente delimitato dai viali di circonvallazione, ha una forma e una dinamica per cui molti “nativi” tendono a identificarlo con la stessa Bologna (essendo il resto “periferia”), anche per la presenza tuttora rilevante di attività economiche, servizi sociali e attrezzature di interesse pubblico, sedi istituzionali e universitarie, tale da garantire un alto grado di frammistione funzionale e sociale. I punti di crisi più evidenti di questo che è, a tutti gli effetti, il core della città metropolitana, sono riconducibili proprio all’uso intensivo da parte di popolazioni diverse e numerose (native e immigrate, residenti e temporanee, giovani e anziane, ricche e povere …), che sottopongono a forte stress una città fisica dalla conformazione non facile ed entrano in conflitto per l’accessibilità e i modi d’uso[35].

Azioni per la riduzione e regolazione del traffico automobilistico e scooteristico, pulizia e riqualificazione dello spazio pubblico, valorizzazione dei caratteri distintivi delle diverse parti (identificate come “distretti”), sono confluite nel piano “Di nuovo in centro.

Proposta per una “nuova pedonalità”. Si tratta di una successione programmata di interventi non schiacciata sulle pedonalizzazioni (pur previste), ma volta a creare diverse condizioni di accessibilità a partire dalle esigenze del pedone e del ciclista, quindi a migliorare in maniera sensibile l’abitabilità[36], del centro. La presentazione del Piano[37] è avvenuta mettendo in primo piano i disagi connessi all’inquinamento per polveri e rumore, alla gestione inadeguata dei rifiuti, all’imbrattamento dei muri, alle diverse forme di occupazione incongrua di uno spazio pubblico tanto pregiato quanto delicato, a cominciare dai portici che, con la loro straordinaria estensione di oltre 40 kilometri, costituiscono una cifra distintiva di Bologna. Una proposta che si distingue in maniera evidente da quella contenuta nel famoso Piano della mobilità redatto da Bernhard Winkler nel 1989[38].

Oggi, con il Progetto per una nuova pedonalità si propone non solo la limitazione dell’accesso ad auto e moto, variamente calibrata entro un’area che interessa tutto il centro città, ma anche la riqualificazione e la cura di strade, piazze e spazi verdi come condizione per valorizzare i caratteri propri e l’attrattività di Bologna.

Attraverso un lungo e articolato percorso di discussione durato 4 mesi (nei Quartieri, con le Associazioni e i tanti portatori di interesse) si è registrata una generale condivisione delle politiche connesse, mentre si è aperto un contraddittorio, divenuto a tratti molto acceso, con ampie componenti dei commercianti[39]. In questa reazione sono prevalse la preoccupazione per il nuovo, accentuata dalla crisi economica, e la difficoltà a stabilire un nesso tra pedonalità e rilancio del centro nel suo insieme. Se da un lato si riconoscono le potenzialità dello sviluppo turistico, dall’altro non si considerano i tanti, diversi fattori di successo, non si riconosce l’importanza di una qualità diffusa non riducibile ad alcune “isole” pedonali e all’arredo.

Riassumendo

Sono partita dai segni della crisi nella città dove sono attualmente impegnata come assessore per poter fissare alcuni modi nei quali tale crisi si riflette sul fare urbanistica. D’altro canto ho ritenuto indispensabile richiamare le grandi questioni sottese al profondo cambiamento in atto. Sottotraccia una domanda: che fare in questa situazione, come accompagnare il cambiamento nella direzione di una migliore abitabilità?

L’esperienza che ho tratteggiato (in corso e in parte tentativa), consapevolmente centrata sulla trasformazione diffusa e la manutenzione, può incidere profondamente sul volto e le pratiche d’uso della città, ma è un’attività in sordina che richiede tempo e aggiustamenti continui, che delude le domande radicali. Manifesta un punto di vista che riassumerei in questi termini: fare urbanistica oggi comporta l’accettazione di un agire che non può essere catartico e dominante, che deve accettare la parzialità nel concorso di molteplici saperi e poteri, interessi e competenze, e la scarsa evidenza degli esiti. Se sullo sfondo si staglia ormai nettamente un nuovo paradigma per le politiche urbane e territoriali, nell’immediato si impone una successione di azioni dal carattere modesto e processuale, disposte su piani diversi, affidate all’adesione diffusa e alla costanza nel tempo. Sono azioni che, per questo loro carattere, a fatica rendono percepibile la strategia sottesa e la trasformazione profonda nella quale trovano ragione e senso; più facilmente sono ricondotte a limiti temporanei da rimuovere o a incapacità di “pensare in grande”.

I tempi assai difficili della transizione mettono in grave affanno, forse seppelliscono definitivamente la matrice comprensiva dell’urbanistica moderna. E’ certamente crisi, ma completamente inscritta nella crisi della modernità e questa consapevolezza dovrebbe essere un antidoto contro l’autoreferenzialità. Al primo posto non c’è la rilevanza del ruolo dell’urbanista, ma il senso che il suo lavoro può avere, un lavoro che resta necessario per dare forma e organizzazione all’insediamento urbano, a prescindere dal riconoscimento sociale di chi lo pratica. Si tratta di un lavoro di trincea che ha bisogno di una visione, e qui sta il paradosso: siamo abituati ad associare la visione agli eroi e alle azioni che danno scacco matto, ma complessità e democrazia hanno messo in mora gli uni e le altre

Estratto da:

Città e politiche in tempo di crisi, a cura di L. Fragolent e M. Savino, F. Angeli, Milano 2013

 

 


[1] Per urbanizzazione primaria, secondaria e proventi da costi di costruzione. Nel Comune di Bologna, dal 2007 al 2011, gli oneri di urbanizzazione sono stati destinati alla riqualificazione della città in misura variabile, da un minimo del 54,1% nel 2009 a un massimo del 75,4% nel 2011. Nel 2012 non sono stati utilizzati per spese correnti, come pure nel 2010.
[2] Due in particolare, assai rilevanti, ritardano: Navile (Ex Mercato ortofrutticolo) e Bertalia-Lazzaretto. Già previsti nel Prg del 1989 e inclusi nel Piano operativo comunale del 2009, i due ambiti di trasformazione occupano complessivamente oltre 123 ettari e prevedono circa 3.130 alloggi, di cui oltre 500 per edilizia residenziale sociale, più edifici per usi sociali, universitari, commerciali e terziari. Per l’attuazione degli interventi previsti nell’ambito Navile il Comune di Bologna ha ottenuto un finanziamento di 10,25 milioni del “Piano città”. Per una presentazione de I migliori progetti del Piano città si veda “Edilizia e Territorio”, n. 4, 2013.
[3] Dati dell’Assessorato a Lavori pubblici, Politiche abitative e Protezione civile del Comune di Bologna.
[4] Il crollo, a partire dal 2007, ha battuto ogni precedente record di intensità e di persistenza: tra il 2006 e il 2011 il mercato si è ridotto di un terzo in termini di compravendite, mentre gli investimenti sono calati del 21% e i prezzi scesi del 22%. Il 2012 è stato un altro anno pesantemente negativo. La crisi delle compravendite mette in discussione il mercato della nuova produzione edilizia, residenziale e non residenziale. La crisi del debito impone forti vincoli alla spesa per le opere pubbliche. La crisi finanziaria e il rischio default del sistema bancario riducono la disponibilità di credito. La crisi economica sottrae capacità di spesa alle famiglie, indebolendo il potenziale di crescita delle imprese e la capacità di queste ultime di tenere in ordine i bilanci. Si veda Città, Mercato e Rigenerazione 2012, Analisi di contesto per una nuova politica urbana. Nota stampa, ricerca promossa da CNAPPC e ANCE, realizzata da Cresme e presentata al Forum sulla Rigenerazione urbana sostenibile “Casa e città per disegnare un futuro possibile”, Milano 20-21 aprile 2012.
[5] Come noto, le Regioni che si sono dotate di una nuova legge urbanistica di questo tipo hanno interpretato la riforma in modi piuttosto diversi.
[6] Sulle diverse interpretazioni e implicazioni della perequazione si veda E. Micelli, La gestione dei piani urbanistici. Perequazione, accordi, incentivi, Marsilio, Venezia 2011.
[7] Si veda A. Coppola, Apocalypse Town. Cronache dalla fine della civiltà urbana, Laterza, Roma- Bari 2012.
[8] Il numero speciale 40/41 di aprile-settembre 2012 di inforum (rivista della Regione Emilia-Romagna) propone un inquadramento della questione urbana assumendo come chiave di lettura la “rigenerazione”. L’accento si sposta verso forme di riqualificazione che implicano la resilienza, ovvero il recupero di equilibrio fra domanda ed offerta di risorse ambientali incondizioni di scarsità.

[9] Sono ornai numerosi i testi che elaborano i termini e modi di questa intersezione raccogliendo contributi provenienti da campi diversi del sapere e dell’esperienza internazionale, fra gli altri: M. Mostafavi con G. Doherty (eds.), Ecological Urbanism, Harward University Graduate School of Design, Lars Müller Publisher; Aa.Vv., Eco-Logics. Progetto ed Ecologia/Design and Ecology, “Piano Progetto Città”, n.25-26, 2012; F.D. Moccia (a cura di), Abitare la città ecologica/Housing ecocity, Clean, Napoli 2012.
[10] Sugli effetti indesiderati della densificazione si veda P. Naess, Crescita economica,sviluppo urbano e sostenibilità ambientale, in F.D. Moccia ( a cura di), op. cit.
[11] Rinvio al noto testo di A.G. Calafati, Economie in cerca di città. La questione urbana in Italia, Donzelli, Roma 2009, ma anche a P. Gabellini, con A. Di Giovanni, C.Gfeller, M. Mareggi, Immagini del cambiamento in Emilia Romagna, Compositori, Bologna 2012, dove si restituisce un lavoro di ricerca per il Ptr della Regione Emilia Romagna che continua a esplorare la prospettiva di un territorio costituito da “città di citta”.
[12] Essere smart city è diventata una raccomandazione ampiamente condivisa in Europa e negli Stati Uniti per vincere la competitività e garantire la crescita economica. L’approfondimento dei casi studio ha progressivamente messo a fuoco la necessità di apprendere e innovare partendo da specifici “talenti” di città e territori e coinvolgendo diverse dimensioni. Per una disamina della letteratura e dei casi studio si vada S. Caschetto, Smart City, un’opportunità per ri-pensare la città contemporanea, tesi di Laurea magistrale in Pianificazione urbana e politiche territoriali, Scuola di Architettura e società, Politecnico di Milano, Aa. 2010-2011.
[13] Un chiaro esempio del processo in grado di trasformare dei poli funzionali in centralità urbane si trova in G. Fini, Polarità periferiche e nuove forme di urbanità. Due progetti nella regione urbana di Amsterdam, “Territorio”, n. 54, 2010.
[14] “Vivere ponendo una particolare attenzione alla cura implica una più frequente e problematica lavorazione di e con categorie come flessibilità, complessità, gestione del disordine e dell’imprevisto, relazione, empatia, ambiguità, valore della differenza. Può significare progettare indagando l’inaudito, acquisire capacità di rivelazione delle zone d’ombra. Secondo tale impostazione lavorare con cura può essere ben diverso dall’operare con pavida prudenza, entro un incrementalismo stanco che non getta lo sguardo oltre la siepe.”, G. Laino, Il fuoco nel cuore e il diavolo in corpo. La partecipazione come attivazione sociale, Franco Angeli, Milano 2012, p.24. L’autore individua la cura, assieme al trespassing e all’ambiguità, come aspetti caratteristici per tratteggiare la mutazione avvenuta.
[15] Ho cominciato a esplorare alcune differenti forme insediative che chiedono diversi progetti urbanistici in P. Gabellini, Fare urbanistica. Esperienze, comunicazione,memoria, Carocci, Roma 2010.
[16] La diffusione europea, rispetto allo sprawl americano col quale la si è confrontata, talvolta assimilandola, si distingue per alcune peculiarità che costituiscono, a mio modo di vedere, interessanti opportunità di ricomposizione della città contemporanea. In Italia, in particolare, dove alcuni aspetti sembrano portati alle estreme conseguenze, si riscontrano forme diverse (espansione metropolitana con formazione di suburbi, sviluppo lineare lungo le coste e le valli, trasformazione dei nuclei rurali), un generale mix funzionale dovuto al rapporto con le dinamiche dell’industria piccola e media, una “casuale” frammistione di materiali urbani (anche per la mancanza di regole, talvolta totale come nelle zone dell’abusivismo), diversi tipi di pattern per misure, densità, funzioni e materiali. Si veda A. Lanzani, G. Pasqui, L’Italia al futuro. Città e paesaggi, economie e società, Franco Angeli, Milano 2005.
[17] Riconosciuta Città metropolitana, con soppressione della provincia, come Roma, Torino, Milano, Venezia, Genova, Firenze, Bari, Napoli, Reggio Calabria. Gli abitanti della provincia di Bologna sono circa un milione e quelli dell’area conurbata 650.000. La provincia ha un’estensione di 3.700 kmq, l’area urbanizzata di 210 kmq e il comune di Bologna di poco meno di 141 kmq.
[18] Una rappresentazione dell’area metropolitana bolognese, a confronto con altre aree metropolitane dello stesso rango, ponendo l’accento sulla diffusione insediativa, si trova in F. Indovina, L. Fregolent, M. Savino (a cura di), L’esplosone della città. Catalogo della mostra, Editrice Compositori, Bologna 2005.
[19] Una sintesi coordinata del nuovo piano urbanistico, costituito da Piano strutturale comunale, Regolamento urbanistico edilizio, Piano operativo comunale, si trova in B. Bonfantini, F. Evangelisti (a cura di), Bologna. Leggere il nuovo piano urbanistico PSC+RUE+POC, Edisai, Bologna 2009 (nel cd rom allegato si trovano tutti i documenti originali); una presentazione commentata in G. Ginocchini, C. Manaresi (a cura di), Bologna, un nuovo piano, “Urbanistica” n. 135, 2007.
[20] L’amministrazione con sindaco Virginio Merola si è insediata il 17 maggio 2011, dopo oltre un anno di gestione commissariale seguita all’interruzione del mandato della Giunta guidata dal sindaco Flavio Delbono (luglio 2009 – gennaio 2010).
[21] Una prima fase si è chiusa nel 2012 con la raccolta e organizzazione tematica di 556 progetti presentati. La fase successiva si è aperta con un secondo Forum, dopo quello di apertura, tenuto il 9 febbraio 2013. “Città compatta e sostenibile” è il titolo di uno dei 15 programmi coi quali sono stati raggruppati i progetti.
[22] Il Programma unitario di valorizzazione di immobili pubblici (PUV Bologna), sottoscritto con un primo Protocollo di intesa da Ministero dell’economia e delle finanze, Agenzia del demanio e Comune di Bologna nel 2007, oggetto di Accordo integrativo nel 2010, è stato ulteriormente modificato nel novembre 2012 per far fronte ai problemi riscontrati nell’alienazione degli immobili tramite asta. Con l’ultimo accordo l’Agenzia del Demanio e il Comune di Bologna si sono impegnati a definire strategie di azione che tengano conto delle mutate condizioni economico-finanziarie e delle innovazioni legislative che consentono il ricorso a nuove procedure e strumenti attuativi (fondi comuni di investimento immobiliare, società di gestione, consorzi). Tra gli aspetti significativi c’è anche l’impegno a valutare la possibilità di utilizzi temporanei degli immobili, al fine di evitare fenomeni di degrado fisico e sociale connessi alla inutilizzazione degli stessi, senza arrecare pregiudizio al processo di valorizzazione. Per un inquadramento del tema si veda D. Ponzini, M. Vani (a cura di), Immobili militari e trasformazioni urbane, “Territorio”, n. 62, 2012, in particolare F. Evangelisti, Bologna: un campo di sperimentazione tra PSC e PUV.
[23]Il Programma è partito nel marzo 2012 con un Avviso pubblico per la presentazione di manifestazioni di interesse, proseguito nel dicembre 2012 con un Documento guida per la redazione del Piano operativo, cui sono seguiti incontri con i proponenti per la messa a punto dei progetti che dovranno essere consegnati tra marzo ed aprile 2013. Inizierà allora la procedura di valutazione e di concertazione per definire gli accordi di programma da inserire nel Poc.Un primo commento al Programma si trova nella scheda “Il prossimo Poc di Bologna. Prove di edilizia senza consumo di suolo”, in Legambiente Emilia-Romagna, Il Valore del suolo. Il consumo di territorio in Emilia-Romagna e i piani delle città, Bologna 2012.

[24] 2.500 mq di Su o 7.000 di mc negli ambiti misti e 15.000 mc in quelli specializzati.
[25] Il mantenimento delle regole stabilite dagli strumenti urbanistici vigenti distingue questo Programma da quelli di riqualificazione urbana, variamente denominati da leggi nazionali e regionali ma comunque in variante.
[26] Si veda il Quadro normativo del Psc in B. Bonfantini, F. Evangelisti, op. cit.
[27] A valle del bando per le manifestazioni di interesse, chiuso nel maggio 2012 con la raccolta di 109 proposte sinteticamente presentate, si è ritenuto necessario predisporre un documento che individua i requisiti richiesti per i 54 progetti selezionati e candidati all’inclusione nel Poc mettendo a punto anche le procedure per una loro valutazione trasparente e condivisa con Quartieri e operatori. Il Documento guida è stato approvato dal Consiglio comunale il 17 dicembre 2012 con un timing che prevede entro il 2013 la formale approvazione del Poc.
[28]Il Patto dei Sindaci (Covenant of Mayors) è un’ iniziativa della Commissione Europea che chiede alle città europee di impegnarsi nella lotta al cambiamento climatico. Le amministrazioni siglano un patto volontario con l’Europa in cui si impegnano a raggiungere localmente gli obiettivi di riduzione delle emissioni climalteranti fissati a livello europeo. Per questo si impegnano a: preparare un Inventario di base delle emissioni; presentare un Piano d’azione per l’energia sostenibile approvato dal Consiglio comunale; pubblicare ogni 2 anni dall’invio del Paes i Rapporti di attuazione indicanti lo stato di attuazione del piano e i risultati intermedi; promuovere le attività e coinvolgere i cittadini/gli attori interessati;diffondere il messaggio del Patto dei Sindaci. A dicembre 2008 l’Unione Europea ha approvato il cosiddetto “pacchetto clima-energia”, conosciuto anche come strategia “20-20-20” in quanto prevede entro il 2020 di: ridurre i gas ad effetto serra di almeno il 20% rispetto ai livelli del 1990; incrementare l’uso delle energie rinnovabili giungendo ad una quota del 20% di energia rinnovabile sul totale dei consumi di energia; diminuire il consumo di energia del 20% rispetto ai livelli previsti per il 2020 grazie ad una migliore efficienza energetica.

Il Comune di Bologna ha aderito al Patto nel 2008 e questo è il suo primo Paes, per la cui elaborazione ha potuto in parte avvalersi dell’esperienza maturata negli anni precedenti con la formazione del Piano energetico comunale, i cui punti qualificanti sono stati declinati nel Psc e nel Rue e contengono una disciplina molto articolata sui temi energetici. L’adozione del Bilancio ambientale, altro atto volontario che a Bologna compie il suo decimo anno, consente il monitoraggio di un impegno ambientale che si dispiega sui diversi piani.

[29] Il settore della residenza è responsabile del 35% delle emissioni totali di Bologna, con consumi di energia che spesso avvengono in modo inefficiente e con grandi sprechi. Poiché il 65% del patrimonio immobiliare è di proprietà di chi lo abita, la svolta decisiva verso la sua rigenerazione passa attraverso le decisioni dei singoli cittadini.
[30] Efficienza energetica degli edifici, Sostituzione amianto con pannelli fotovoltaici, Comunità solari, Coordinamento degli energy manager, Green ICT, Campagne di informazione, aggregazione e sensibilizzazione, sono i sei pacchetti di azioni cui corrisponderanno altrettanti accordi attuativi.
[31] Gran parte del patrimonio edilizio esistente è stata costruita senza tenere conto di obiettivi di risparmio energetico: il 22,4 % del patrimonio edilizio bolognese risale a prima del 1919, mentre il 68% è stato costruito fra il 1919 e il 1971.
[32] Generalmente limitati al rinnovo degli impianti e alla sostituzione degli infissi, senza investire la struttura muraria dell’edificio e quindi ridurre in maniera decisiva le dispersioni di energia, magari prodotta con pannelli fotovoltaici e solari.
[33] Bologna è capofila del progetto europeo Life Gaia che prevede la piantagione in 3 anni di 3.000 alberi in aree pubbliche, con il concorso di partner privati disponibili a compensare in tal modo la loro impronta ecologica.
[34] Una riflessione ampia su questi temi, sviluppata a livello locale, si trova in M. Agnoletto, M. Guerzoni, La campagna necessaria, Un’agenda d’intervento dopo l’esplosione urbana, Quodlibet, Macerata 2012. Essi vengono ripresi anche in S. Boeri con I. Berni, Fare di più con meno. Idee per progettare l’Italia, Il Saggiatore, Milano 2013.
[35] è stato emblematico il confronto sul Regolamento per i de hors, la cui approvazione in Consiglio comunale il 17 dicembre 2012 è arrivata dopo un serrato confronto, durato alcuni mesi, che ha visto emergere come nodo proprio l’orario di chiusura di queste numerose (oltre 600) e diffuse propaggini esterne dei pubblici esercizi dove si concentra parte della vita notturna.
[36] Concetto che ha permeato il Psc e sul quale mi sono soffermata in P. Gabellini, Fare urbanistica, op. cit.
[37] Riferimenti e documenti sono disponibili sul sito web www.comune.bologna.it/dinuovoincentro. Il Piano è in corso di pubblicazione.
[38] Quel Piano era seguito al referendum per la chiusura del centro storico alle auto, indetto nel 1984, nel quale il 70% dei votanti si era espresso a favore. Si veda il numero 177/1990 della rivista “Parametro” che vi dedica un’ampia illustrazione.
[39] L’Associazione dei commercianti ha presentato un suo progetto che, fissando alcune precondizioni, fra le quali la realizzazione di numerosi parcheggi (trascurando una riflessione sul sottoutilizzo di quelli esistenti), rinvia al prossimo decennio la limitazione del traffico veicolare. Si veda Confcommercio Ascom Provincia di Bologna, Centro storico Pedonalità e Qualità urbana: proposta per una Bologna futura, Bologna 2012.

 

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