La cooperazione in area vasta e le prospettive dopo la Legge 135/2012
A cura della Commissione Cooperazione e coordinamento territoriale
18/11/2012
Il percorso di riordino istituzionale nella recente legislazione
Con la conversione del D. L. 201/2011 nella Legge 214/2011 “Disposizioni urgenti per la crescita, l’equità e il consolidamento dei conti pubblici” il Governo Monti, dopo vari interventi emendativi, ha gettato le basi per una rivisitazione del ruolo dell’ente Provincia e dei suoi organi di governo. All’art. 23 ha previsto, infatti, la costituzione di nuove Province con “esclusive funzioni d’indirizzo e coordinamento delle attività dei Comuni, in materie e nei limiti indicati con legge statale o regionale, secondo le rispettive competenze”. Queste disposizioni hanno poi trovato una prosecuzione nella Legge n. 135 emanata il 7 agosto di quest’anno, di conversione del decreto sulla revisione della spesa (D.L. n. 95 del 6 luglio 2012). Tra le norme convertite vi è, infatti, l’art. 17 “Riordino delle province e loro funzioni” nel quale il previsto processo di “soppressione”, “razionalizzazione” e “accorpamento” delle Province viene ridefinito come un processo di “riordino”. Tale riordino avviene sulla base di requisiti minimi, i quali restano demandati alla deliberazione del Consiglio dei ministri, al momento della conversione già approvata e pubblicata in G.U. 24 luglio 2012, n. 171. La legge 135, oltre ai due principali criteri della popolazione, non inferiore ai 350.000 residenti, e della superficie territoriale, non inferiore ai 2.500 kmq, definiti dalla deliberazione governativa del luglio 2012, aggiunge il rispetto della continuità territoriale della provincia. Inoltre il testo legislativo conferma che gli organi di governo delle Province sono esclusivamente il Presidente e il Consiglio con la soppressione della giunta provinciale, come previsto dal D.L. 201/2011.
La legge, tuttavia, ridefinisce le funzioni provinciali, precisando che spettano alla Provincia, oltre a quelle di indirizzo e coordinamento del D.L. 201/2011:
a) la pianificazione territoriale provinciale di coordinamento nonché la tutela e valorizzazione dell’ambiente, per gli aspetti di competenza;
b) la pianificazione dei servizi di trasporto in ambito provinciale, autorizzazione e controllo in materia di trasporto privato, in coerenza con la programmazione regionale nonché la costruzione, classificazione e gestione delle strade provinciali e regolazione della circolazione stradale ad esse inerente;
b-bis) la programmazione provinciale della rete scolastica e gestione dell’edilizia scolastica relativa alle scuole secondarie di secondo grado.
L’articolo 17 definisce anche la procedura da seguire per il riordino che è articolata in tre fasi:
1) il Consiglio delle autonomie locali[1] di ogni regione a statuto ordinario approva una ipotesi di riordino relativa alle province ubicate nel territorio della rispettiva regione sulla base dei requisiti proposti dal Governo e la invia alla regione medesima.
2) ciascuna regione trasmette al Governo una proposta di riordino delle province ubicate nel proprio territorio, formulata sulla base delle ipotesi suddette.
3) il riordino si attua con legge del Governo sulla base delle proposte delle Regioni. Se una o più proposte di riordino delle regioni non sono pervenute al Governo, il provvedimento legislativo è assunto previo parere della Conferenza unificata.
Il processo di riordino non riguarda solo le Province citate, ma con l’art. 18 “Istituzione delle Citta’ metropolitane e soppressione delle province”, coinvolge anche i 10 Comuni metropolitani di Roma, Torino, Milano, Venezia, Genova, Bologna, Firenze, Bari, Napoli e Reggio Calabria, che andranno a sostituire le rispettive province di cui riceveranno il patrimonio, le risorse umane, strumentali e finanziarie. Alle citta’ metropolitane sono attribuite le funzioni fondamentali delle province e, in particolare, la pianificazione territoriale generale e delle reti infrastrutturali, la strutturazione di sistemi coordinati di gestione dei servizi pubblici, nonche’ l’organizzazione dei servizi pubblici di interesse generale di ambito metropolitano, la mobilita’ e viabilita’, la promozione e coordinamento dello sviluppo economico e sociale.
Il riordino investe, inoltre, con l’art. 19 (“Funzioni fondamentali dei comuni e modalita’ di esercizio associato di funzioni e servizi comunali”) i Comuni con popolazione fino a 5.000 abitanti (o 3.000 abitanti se appartengono o sono appartenuti a comunita’ Montane) che esercitano obbligatoriamente in forma associata, mediante unione di comuni o convenzione, le funzioni fondamentali tra cui la pianificazione urbanistica ed edilizia di ambito comunale. Le Regioni sono investite del compito di individuare di concerto con i Comuni la dimensione ottimale delle Unioni o delle Convenzioni che non può essere inferiore ai 10.000 abitanti. Con l’art. 20 “Disposizioni per favorire la fusione di comuni e razionalizzazione dell’esercizio delle funzioni comunali” si incentiva inoltre con un contributo erariale la fusione dei comuni.
Lo stato di attuazione del processo di riordino
Entro la prevista scadenza del 4 ottobre 2012, sono 13 i Consigli delle Autonomie Locali (la Conferenza permanente delle autonomie locali nel caso della Basilicata) che si sono pronunciati in merito alla proposta di riordino. Le deliberazioni adottate hanno messo in luce una diversità estrema di posizioni che ha visto alcuni Cal assecondare il processo di accorpamento, altri manifestare preoccupazione perché rimarrebbe nel territorio regionale una sola Provincia (Umbria, Molise, Basilicata), altri ancora esprimere un netto dissenso (il Cal del Lazio, ad esempio, ha aderito alla decisione della giunta regionale di impugnare l’art. 17 davanti alla Corte costituzionale, il Cal della Calabria ha chiesto alla Giunta di impugnare l’art. 17).
Ne è scaturita una proposta delle regioni, ad eccezione di Calabria e Lazio, che non ha tenuto minimamente conto della necessità di assicurare un efficace governo del territorio di area vasta, né di favorire un coordinamento della pianificazione comunale, quanto piuttosto delle regole imposte dalla legge che sembra avere come unico obiettivo del riordino il contenimento della spesa pubblica.
La decisione del Governo, assunta col d.l. 188 del 5/11/2012, non ha tenuto conto delle proposte regionali che si discostavano dalla rigida applicazione dei criteri determinati con la deliberazione del Consiglio dei Ministri del 20 luglio 2012, confermando la dimensione territoriale minima di 2.500 Kmq. ed una popolazione minima di 350.000 abitanti.
Ne consegue che dal 1 gennaio 2014 le province delle regioni a statuto ordinario si riducono da 86 a 51, comprese le città metropolitane.
I riflessi di tale decisione, se sarà confermata dal Parlamento, sulla pianificazione territoriale non sono ancora chiari. Ma aldilà della riduzione dei numeri appare evidente una situazione delle province assai diversa da regione a regione, sia per l’attività di pianificazione si qui svolta, sia per l’identità dei territori coinvolti nel processo di riordino che si sentono espropriati di autonome competenze di governo.
Il trasferimento delle funzioni alle nuove province potrebbe non avere su tutto il territorio nazionale gli stessi esiti.
Le questioni problematiche emerse nel lavoro della Commissione Cooperazione e coordinamento territoriale
La Commissione Cooperazione e coordinamento territoriale dell’INU è interessata ai cambiamenti per il governo del territorio e alle difficoltà operative per la pianificazione territoriale che potrebbero scaturire dal riordino istituzionale in atto. Mentre sugli aspetti di natura economica, connessi al citato processo di riordino, esiste una qualche riflessione disciplinare in particolare rivolta ad analizzare più approfonditamente i costi effettivi delle Province[2], poco sono stati indagati gli aspetti che potrebbero influire sulla pianificazione di area vasta[3]. E’ necessario, dunque, chiedersi se i processi di riordino in corso che coinvolgono tutte le istituzioni e, in particolare, Province, città metropolitane e unioni di comuni, consentano di pensare ad un sistema della pianificazione ai vari livelli di governo del territorio in grado di conseguire obiettivi di pianificazione anche alla scala di area vasta con un’adeguata prospettiva ed efficacia.
Il riordino in atto presenta alcuni aspetti di incertezza e problematicità su cui la Commissione intende riflettere per aiutare i processi in corso[4].
1) In primo luogo va evidenziato come la prospettiva di riordino delle Province insieme alla proposta per le città metropolitane configuri sostanzialmente un processo di rafforzamento dell’intercomunalità in alcune aree, garantendo un coordinamento diffuso nelle aree rimanenti, portando ad una pianificazione di area vasta diversificata tra aree del paese in cui ci sarebbero i piani delle città metropolitane e aree del paese in cui ci sarebbero i piani territoriali di coordinamento provinciale. Si delinea, infatti, l’esistenza di due strumenti di pianificazione di area vasta: il primo per i sistemi complessi a dominante antropizzata di natura metropolitana, affidato alle città metropolitane, e il secondo per i sistemi complessi a dominante naturale o, comunque non significativamente antropizzata, affidato alle Province rinnovate dalla legge135/2012. I due strumenti di pianificazione di area vasta presenterebbero differenze per contenuti, autorità che redigono il piano (di secondo livello nel caso delle Province) e procedure.
Ci si può chiedere: questo duplice modello di governo del territorio di area vasta, già in linea di massima presente nella L. 142/90 ma mai implementato per la parte relativa alle città metropolitane, potrebbe presentare qualche rischio comportando un ulteriore rafforzamento del peso delle città metropolitane con un’accentuazione della forza attrattiva dei comuni metropolitani rispetto ai comuni contermini ed un aumento degli effetti di deformazione nelle relazioni di dipendenza dalle aree metropolitane? Quale forza avrebbe il piano territoriale provinciale approvato da un ente di 2° livello rispetto al piano della città metropolitana (il primo sarebbe solo un piano di coordinamento ed il secondo avrebbe anche efficacia conformativa del diritto di proprietà?)
2) La legge 135/2012, infatti, riconferma il ruolo debole attribuito alle Province dalla L. 214/2011, delineate dalla riforma come enti di secondo livello e non enti elettivi diretti, riconfigurate con l’eliminazione delle giunte e la riduzione dei componenti del Consiglio, eletti solo tra i consiglieri comunali. In questa prospettiva le province corrono il rischio di diventare un’emanazione diretta dei comuni, una sorta di “braccio operativo delle Amministrazioni Comunali”, non essendo indipendenti rispetto alle decisioni comunali oggetto della loro attività di pianificazione e coordinamento. In tal modo da un lato l’atavica conflittualità che si è avuta con i comuni è molto ridotta, se non annullata, dall’altro molti dei compiti attuali delle Province non sono più fondati su un’autorevolezza e una autonomia politica in grado di sostenerli, in particolare quelli relativi alla pianificazione provinciale che dovrebbe assolvere ad un ruolo di raccordo tra piani comunali, limitandone le scelte conflittuali.
Ci si può chiedere: un ente che sia privo di un adeguato grado di autonomia, può presidiare e decidere sui temi di area vasta o rischia di perdere il controllo su aspetti come il consumo di suolo[5] e di risorse, i modelli di sviluppo e i carichi insediativi, il paesaggio, le reti infrastrutturali, le reti ecologiche, le invarianti strutturali, il rischio idrogeologico e il coordinamento dei piani comunali, tutti aspetti propri della pianificazione territoriale provinciale? Eppure non può essere negato il contributo delle esperienze di pianificazione provinciale degli ultimi decenni nell’affrontare tali problematiche, nonostante le inefficienze e le lungaggini dei processi di pianificazione implementati. La pianificazione provinciale ha, insomma, imposto un metodo di governo intermedio di area vasta che ha elevato lo sguardo su un territorio più ampio e variegato rispetto a una strumentazione urbanistica comunale rivolta prevalentemente alla città edificata.
3) In particolare la pianificazione provinciale strutturale proposta da alcune leggi regionali come sostitutiva rispetto a quella comunale potrebbe presentare problemi di diverso ordine:
a) potrebbe essere snaturata per province troppo grandi e, soprattutto, per le province coincidenti con le regioni (Umbria, Molise, Basilicata);
b) scaturirebbe da autorità di secondo livello che potrebbero non avere il giusto peso per imporre alla pianificazione comunale un piano strutturale sovraordinato;
c) potrebbe essere sostituita da un piano strutturale dell’Unione dei comuni, ma anche l’Unione dei comuni si configura come un ente di secondo livello e, dunque, l’Unione potrebbe redigere il piano ma l’approvazione spetterebbe sempre ai singoli comuni.
4) Anche l’Unione dei comuni[6] potrebbe presentare dei risvolti problematici qualora dovesse rispondere alla sommatoria di logiche parziali e locali, quali quelle comunali, e non ad esigenze di carattere generale relative a territori più ampi. Se però la legge rafforzasse il carattere dell’Unione, rendendolo organismo obbligatorio per svolgere alcune funzioni intercomunali ed in particolare per la pianificazione di valore strutturale e per svolgere alcuni servizi essenziali di scala sovracomunale, potrebbero essere superate le ambizioni contrastanti dei comuni proiettando il piano dell’Unione verso gli obiettivi e i contenuti del piano di area vasta promosso dal basso.
La svolta in questo processo di cooperazione in area vasta può essere segnata positivamente dal passaggio dall’Unione alla vera e propria fusione degli stessi comuni, promossa dall’art. 20 della stessa l. 135/2012 ma ancora in forma troppo debole. È auspicabile invece che si avvii in tempi brevi un processo di unificazione, stimolato da benefici di carattere fiscale ed economico, perché consentirebbe, superando i campanilismi, di evitare la frammentazione dei piani comunali dando corpo a forme di coordinamento meno spontaneo, ma certamente più efficace, superando le difficoltà sino ad ora incontrate in molte parti del paese, ove la cooperazione intercomunale non è riuscita a sostituirsi alla pianificazione di livello sovracomunale e superando alcune esperienze negative che pure hanno evidenziato come, in alcuni casi, le funzioni “intercomunali”, connesse alla collaborazione tra Comuni, non possono essere confuse con quelle “sovracomunali”, relative a ciò che secondo il principio di sussidiarietà non può essere attribuito ai Comuni ma, secondo il principio di adeguatezza, va attribuito ad un livello intermedio[7].
Il piano territoriale dell’Unione obbligatoria dei comuni potrebbe, in questa fase, assumere il valore di piano strutturale intercomunale e svolgere la funzione di raccordo forte e di coordinamento tra le pianificazioni comunali a cui spetterebbe di sviluppare la parte operativa, nella città urbanizzata, entro un quadro di regole omogeneo e coerente in ambito di area vasta.
5) Il processo di riordino presenta lati oscuri anche in merito alle procedure di approvazione dei piani, quando la legislazione regionale ha previsto che tale approvazione sia affidata alle Province, ed al regime transitorio che andrebbe gestito chiarendo soprattutto quale efficacia avranno i piani territoriali provinciali in assenza della provincia che li ha promossi ed approvati o quando le province saranno sostituite dalle città metropolitane e come tali piani si armonizzeranno tra loro con l’accorpamento di più province.
Oltre a ciò il processo di riordino richiede una partecipazione delle regioni che è auspicabile sia il più omogenea possibile. Le regioni avranno infatti il compito determinante di disciplinare con proprie leggi la formazione dei piani urbanistici comunali e di coordinamento territoriale di area vasta, dopo il riordino delle province, la costituzione delle città metropolitane e le Unioni dei comuni.
Si avvicina una fase che porterà alla ridefinizione di ruoli, protagonismi, procedure e contenuti dei piani, che può segnare in modo innovativo una nuova stagione di piani territoriali.
Nel passato, in assenza di un’azione centrale di indirizzo in grado di guidare o coordinare l’attività legislativa regionale, si è assistito ad un grado di disapplicazione della previgente normativa statale molto differenziato, con punte avanzate di sperimentazione (sdoppiamento strutturale-operativo, copianificazione, partenariato pubblico-privato, progettualità partecipata, perequazione) che possono essere il quadro di partenza per una nuova azione riformatrice, ma con difficoltà crescenti per consentire la diffusione e l’applicazione di strumenti innovativi ma incidenti sulle competenze statali esclusive (regime fiscale e proprietario, principi fondamentali dell’ordinamento). Oggi ci sono le condizioni per sperimentare, all’interno della pratica della funzione legislativa concorrente in materia di governo del territorio, momenti di raccordo e confronto per evitare eccessive divaricazioni nelle scelte di pianificazione a scala locale e di area vasta.
Non si tratta ovviamente di invadere il campo di competenza delle regioni, ma di svolgere insieme ad esse un azione di raccordo, di indirizzo e coordinamento attraverso la individuazione di alcuni principi cardine su cui imperniare la futura attività di pianificazione, alle diverse scale.
Di fronte agli aspetti problematici esposti appare chiaro che il processo di riordino deve essere accompagnato da una revisione complessiva del sistema della pianificazione, che andrebbe preceduta dalla approvazione di una nuova legge che affronti in modo innovativo, conciso, chiaro la disciplina del governo del territorio, entro cui collocare l’approccio alla pianificazione che ne costituisce una delle principali componenti.
Si tratterebbe di evitare una legge dai contenuti regolativi ed invece piuttosto di emanare una normativa di inquadramento generale e di supporto alla legislazione regionale, stabilendo in modo univoco, semplice e condiviso quanti e quali livelli della pianificazione di carattere strutturale, strategico e regolativo saranno previsti e/o confermati alle diverse scale territoriali, semplificando al massimo le procedure farraginose che allungano esageratamente la formazione dei piani e limitandone, ove possibile, i contenuti a quelli essenziali, fino alla riduzione delle autorità coinvolte nella loro formazione ed approvazione.
La legge dovrebbe inoltre trovare le forme per perseguire con efficacia il passaggio da modalità di governo fondate sul coordinamento (in cui c’è qualcuno che comanda) a modalità di governo fondate su forme ben costruite e durevoli di cooperazione. E’, infatti, necessario passare da un governo per ambiti di territorio individuabili per le istituzioni che li gestiscono, ad un governo per ambiti di territori individuabili per le questioni e i problemi territoriali da affrontare. Sappiamo, infatti, che questi ultimi non sono banalmente conseguenti alla densità di popolazione o alla superficie dei territori che delimitiamo. Solo così, forse, non si verificherebbe lo scollamento che troppo spesso percepiamo tra il sistema della pianificazione e la reale struttura socio-economica del territorio.
Si tratta come già detto di un passaggio delicato, ma fondamentale per le ricadute future sull’attività di pianificazione.
Per questi motivi è opportuno che l’INU metta a disposizione tutta la sua competenza non solo per favorire il dibattito scientifico ed il confronto istituzionale, utilizzando in modo positivo il riordino in atto, ma anche per costruire e proporre, come già avvenuto in passato, la formazione di una legge nazionale sul governo del territorio che guidi e coordini il processo irreversibile di cambiamento, cogliendone a pieno gli aspetti positivi.
[1] I CAL sono organi di consultazione a composizione mista regioni – enti locali istituiti dall’art. 123 Cost. (come modificato dalla riforma del titolo V del 2001). Nelle regioni in cui non sono stati istituiti i CAL operano ancora gli organismi di raccordo regione-enti locali istituiti anteriormente al 2001.
[2] Si veda, ad esempio, lo studio curato da Lanfranco Senn e da Roberto Zucchetti dell’Università Luigi Bocconi, presentato all’Assemblea dell’Unione Provincie Italiane con il titolo “Una proposta per il riassetto delle Provincie”, Roma 6 dicembre 2011.
[3] Si veda, in proposito, l’editoriale di Francesco Indovina in ASUR anno XLII n. 101-102, 2011.
[4] Sul tema sta riflettendo anche il Gruppo di lavoro Provinciale dell’INU che, con il suo Presidente Ferretti, ha prodotto un testo di commento a questo scritto in cui si evidenzia in primo luogo la preoccupazione per “la vigenza dei PTCP attuali nelle nuove Province/Città Metropolitane, nonché la procedura ed i tempi del riallineamento dei diversi PTCP” e la richiesta di “modificare la L.214/2011 riportando le Province e le Città Metropolitane al rango di Enti di primo livello, come del resto prevede la vigente Costituzione… per garantire autonomia ed autorevolezza al soggetto istituzionale che dovrà pianificare l’area vasta”. In sintesi, il Gruppo di lavoro Provinciale immagina “che vi sia un PTCP che assolva in pieno alle funzioni attribuite dal D.lgs. 267/2000 e magari acquisisca tutta la parte statutaria dei Piani Strutturali alleggerendo i Comuni, riuniti in Unioni di adeguate dimensioni, di una serie di compiti pianificatori che difficilmente si esauriscono anche in ambiti intercomunali” e ritiene “che il nuovo soggetto intermedio debba riunire anche l’insieme dei piani di settore in questo momento attribuiti ad altri soggetti specializzati”. In sostanza il Gruppo vede “nello strumento di programmazione regionale la definizione degli indirizzi e degli obiettivi per l’utilizzazione delle risorse in funzione dello sviluppo (evidentemente sostenibile) atteso; nel PTCP il piano di area vasta che contiene lo Statuto del Territorio con tutti i vincoli e le invarianti, nonché la strategia territoriale per realizzare gli obiettivi regionali; nello strumento comunale/intercomunale la conformazione dell’uso del suolo in funzione delle strategie territoriali definite dal PTCP e la definizione dei progetti territoriali per la gestione del territorio.
[5] Federico Oliva ha, ad esempio, sottolineato durante il convegno della Commissione Cooperazione e coordinamento territoriale di Perugia come le limitazioni sul consumo di suolo siano diventate operative in quanto i comuni nei loro piani comunali hanno dovuto necessariamente adeguarsi a esse per essere conformi ai piani territoriali provinciali che le prevedevano per avere il parere di conformità dalle province in fase di approvazione.
[6] Le Unioni di Comuni, previste dall’art. 32 del D. Lgs 267/2000, sono enti locali costituiti da due o più Comuni, di norma contermini, allo scopo di esercitare congiuntamente una pluralità di funzioni di loro competenza e ad essi si applicano i principi previsti per l’ordinamento dei Comuni. L’art. 4 della L. 131/2003, al comma 5 estende alla Unione di Comuni la potestà normativa ovvero l’autonomia statutaria e regolamentare. L’atto costitutivo e lo Statuto dell’Unione sono approvati dai Consigli dei Comuni partecipanti con le procedure e la maggioranza richieste per le modifiche statutarie. Nello Statuto si stabiliscono le funzioni da gestire in forma associata e le modalità di acquisizione ed utilizzo delle risorse finanziarie, umane e strumentali. L’unico organo politico previsto è il Presidente dell’Unione scelto tra i Sindaci dei comuni associati; gli altri organi sono individuati e disciplinati dallo Statuto
[7] Buoncristiani P., Il governo del territorio di area vasta, Giornale on-line dell’AISRe (Associazione Italiana di Scienze Regionali), EyesReg, Vol.1, N. 4 – Novembre 2011