L’urbanistica nella Brexit

02/02/2020

Di Francesco Domenico Moccia, segretario nazionale Inu

Il 31 gennaio il Regno Unito è uscito dall’Unione Europea. È un evento celebrato o compianto, certamente storico che induce a previsioni, molto azzardate, perché alta è la posta in gioco per le relazioni internazionali. Ma cosa significa per l’urbanistica? È un interrogativo poco sviluppato dai media ma certamente importante per quelli che in qualche modo se ne occupano.

Per darne una misura sommaria è bene percorrere, nella memoria, alcune tappe che hanno avuto per noi molta importanza ed hanno ispirato, guidato, condizionato il pensiero e l’azione nel nostro paese fungendo da esempio o perlomeno da riferimento critico. Sono eventi, teorie e opere che hanno costituito concretamente delle relazioni culturali entrando nei discorsi disciplinari e influenzando le nostre politiche urbane non sempre in modo positivo ma anche con impatti concreti sulla guida che l’urbanistica ha sviluppato nell’indirizzare i processi di crescita delle città.

All’Inghilterra dobbiamo riconoscere il doppio primato di aver istituito il primo corso di laurea in Town and country planning presso l’Università di Liverpool dove per la munificenza dell’industriale del sapone William Lever (anche costruttore della città industriale di Port Sunlight) si costituì il Department of Planning e della prima legge urbanistica, il Town and Country Planning Act, che seguì nello stesso anno.  Noi dovemmo aspettare 33 anni per la legge e più di 60 per il corso di laurea. L’avvicinamento maggiore al sistema britannico avvenne con la proposta di legge Sullo quando si desiderava importarne il regime dei suoli ottenendo un netto rifiuto dal Parlamento.

Limitandoci alle conoscenze più diffuse, Londra si è presentata come epitome dell’intero Regno Unito, nonostante la sua articolazione in tre nazioni si sia fatta nel tempo sempre più evidente, così come le altre città emerse con maggiore evidenza per i processi di marginalizzazione. Di Londra abbiamo avuto l’iconica rappresentazione settecentesca da Summerson come città di parchi e placidi quartieri residenziali di case a schiera con le famose piazze-giardino dall’intraducibile nome di square. Non si può negare che sia stato un veicolo per sostenere anche da noi l’introduzione del verde pubblico come fondamentale esigenza moderna, un programma che non ha mancato di cambiare profondamente l’eredità delle nostre città storiche dove i giardini erano appannaggio delle dimore nobili.

Londra, ancora di più, si è imposta all’immaginario disciplinare come prototipo della metropoli industriale nella faccia deprecabile della denuncia di Engels, nelle interpretazioni organiche di Geddes o nel pragmatismo di Howard. Precorrendo i tempi di sviluppi economici che avrebbero travolto anche la nostra nazione con quella poderosa spinta all’urbanizzazione, ha anticipato una comprensione di processi e misure per indirizzarli verso un equilibrata e efficiente organizzazione del territorio. Con il modello della città giardino, prima, fino ai suoi estremi sviluppi nelle new towns ha offerto una linea di lavoro con la quale indirizzare verso la suburbanizzazione e cercare di darle una forma alla crescita demografica delle metropoli industriali. Anche noi abbiamo deciso di pagare con un cospicuo consumo di suolo i benefici di quel connubio città-campagna che lo stenografo parlamentare Howard aveva rintracciato nei sogni abitativi del popolo inglese.

In Italia le città giardino, come le aveva tradotte in architettura Unwin, sono poche perché abbiamo seguito di più il modello tedesco delle siedlungen. Tuttavia non hanno mancato di spingere nel dibattito sulla crescita urbana entrando a far parte delle influenze che ci pervenivano da Francia e Germania con cui ci siamo adoperati a compiere le nostre originali miscele, come i quartieri coordinati CEP di case economiche e popolari dove si incontrano le New Towns con le Ville Nouvelle. Abbiamo assistito, in ogni caso, al successo della casa unifamiliare, spesso a schiera, in quartieri residenziali a bassa densità, dilagata in quelle che non chiamiamo sobborghi ma periferie.

Nel fervore della ricostruzione del secondo dopoguerra, il piano di Londra di Abercombie si prestava come la concreta praticabilità di ordinare una grande metropoli con l’organizzazione dello spazio adatto all’integrazione di popolazioni sradicate e differenti lì frettolosamente radunate, in accordo con le teorie sociali di Mumford. Questo filone di pensiero alimentò il nostro comunitarismo cattolico ed industriale, come quello di Olivetti, e si prolungò fino al neorealismo.

Alla pianificazione londinese abbiamo continuato a guardare sempre come esperimenti pioneristici, ultimo dei quali, dopo la sua risorta dimensione metropolitana e il piano del 2004 a cui seguiva tutto il lavoro sulla lotta ai cambiamenti climatici. Poi, con la gestione delle Olimpiadi ha voluto dimostrare come un evento eccezionale può essere indirizzato a benefici stabili per i cittadini, con un’accelerazione dei processi di miglioramento della qualità urbana.

L’Inghilterra sembrava essersi guadagnata la fama dell’ortodossia dell’urbanistica quando operò la conversione totale della deregulation, alfiere Peter Hall, traduttore urbanistico delle privatizzazioni della Thatcher. Così ebbe più fortuna presso di noi dove la legislazione si è andata sempre più orientando verso le deroghe, accantonando obblighi legislativi come quello della legge quadro sul governo del territorio, scaturito dallo sviluppo dell’autonomia regionale.

La controversa vicenda dei Docklands è stato l’osservatorio in cui si sono testate le combinazioni pubblico-privato, pianificazione e mercato, da cui sono emerse formule, tipo enterprize zones che hanno alimentato le politiche urbane dell’unione e che ci ritroviamo nelle ZES. Nella fase di adesione all’Unione, il programma urban e poi l’asse città nei fondi strutturali, la diffusione della pianificazione strategica, i contratti di quartiere da parte nostra, hanno visto tanti punti di convergenza, preparata e facilitata dagli scambi accademici in AESOP. Il contributo britannico è riscontrabile nell’impegno profuso in patria sia nello sviluppo della ricerca sulle città che nelle politiche specialmente focalizzate alla rinascita dei centri città.

Si potrebbe obiettare che sullo sfondo delle innovazioni, al di là di questi scambi continentali, opera il potente centro di elaborazione USA e la sua irresistibile capacità d’influenza, nella cui orbita l’UK potrebbe ancora più avvicinarsi quanto più si stacchi dall’Europa. È certo che nelle ultime decadi le idee urbanistiche hanno avuto sempre più rapida circolazione globale e saranno ancora di più accelerate dal global warming e dalla necessità dirisposte omogenee o perlomeno coordinate nella rigenerazione degli insediamenti umani. Discorso diverso è la politica territoriale europea dove la sua capacità attenuatrice dell’asse franco-tedesco verrà a mancare e richiederà ad una Italia, sempre un poco distratta, un maggiore impegno.

Articolo pubblicato in: Comunicazioni, In Evidenza, InuInforma, NL
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