L’addio a Bruno Gabrielli

04/10/2015

Bruno Gabrielli
Bruno Gabrielli ci ha lasciati oggi. Membro effettivo dell’Inu e animatore della rivista Urbanistica, che ha codiretto nel 1977. Era nato a Genova il 18 aprile 1932, professore emerito di urbanistica all’Università di Genova, dove ha insegnato dal 1982. Precedentemente ha insegnato all’Università IUAV di Venezia, dove è stato tra i fondatori del Corso di Laurea in Urbanistica nel 1970, e al Politecnico di Milano. Promotore dell’Associazione nazionale centri storici e artistici (ANCSA), di cui è stato a lungo Segretario tecnico e poi per venti anni Presidente. 

 

I ricordi di Marco Romano e Stefano Storchi 
e l’Ultimo scritto di Bruno Gabrielli

 

Sessant’anni fa Bruno studiava alla facoltà di architettura di Milano, e lì ci siamo conosciuti tramite una mio cugino genovese, Tommaso Badano, che anche lui studiava a Milano, e conosciuti intono alla pasta e fagioli cui mio padre li invitava, magari una volta alla settimana.

Emigrato Bruno il terzo anno all’IUAV, a Venezia, ci siamo reincontrati ai tempi dell’UGI e dell’UNURI – sono diventato con il suo consenso segretario nazionale degli studenti di architettura, una sorta di sottoministero dell’UNURI, il parlamento nazionale universitario – e subito appena laureati abbiamo incominciato qualche lavoro insieme, il concorso per il piano regolatore di Acqui Terme insieme a Tommaso Badano e a Edda Ricagno: perdemmo il concorso, ma ne trarremmo deliziose esperienze culinarie e soprattutto Bruno conquisterà e mariterà Edda, la vera compagna di una vita.

Da allora Bruno è rimasto il mio più stretto e affettuoso amico, nei dieci anni dal 1964 assistenti insieme di Astengo all’IUAV nei corso di urbanistica e poi con lui fondatori del corso di laurea in urbanistica, e quante sere Bruno avrebbe dormito da Genova a Milano per ripartire la mattina presto del giorno dopo per Venezia! e quante volte Edda e Bruno verranno a trovarci nella nostra casa di famiglia a Sassello dove mio padre imparerà e conoscerlo e lo trascinerà alla segreteria della rinnovata ANCSA.

E poi, dopo avere condiviso nel 1969 un certo giovanilismo dell’INU, condivideremo per alcuni anni la conduzione della rivista Urbanistica, mentre non soltanto sarà una consuetudine qualche viaggio insieme – quello nel Piemonte barocco, quello in Inghilterra, quello a Barcellona, quello a Parigi, e altri ancora – ma lo saranno anche serate di capodanno dal luminoso terrazzo della loro prima casa in corso Firenze.

Se Bruno, dalla fine degli anni Settanta, ha consolidato la sua carriera accademica a Milano, sapeva di poter nel caso fermarsi a dormire nella nostra casa, qualche anno dopo, quando ho incominciato a insegnare a Genova, sapevo di poter contare nel caso a un letto nella sua nuova casa, quello splendido appartamento affrescato in via San Lorenzo che avevano tanto sperato.

Su tante molte altre cose Bruno mi è stato vicino, cose e vicende che sfiorano troppo la nostra sfera privata per raccontarle qui, ma a me sembra, allo scadere di questi sessant’anni, di perdere con la scomparsa di Edda lo scorso anno e di Bruno oggi quella parte della mia vita che sta più vicina al cuore.

Marco Romano

 

Bruno Gabrielli ha speso la propria vita per conseguire un ideale: quello di una città migliore nel quadro di una società più giusta. Credo che nel suo operare la dimensione tecnica e l’impegno politico non siano scindibili. E non a caso sono stati proprio gli anni del suo impegno quale Assessore nella giunta Pericù che hanno segnato una svolta nel suo modo di pensare l’urbanistica.

Alla sua esperienza tecnica ha saputo unire la capacità di leggere le traiettorie che la società stava vivendo e i problemi che si stavano prospettando; a questi cercava di rispondere in termini concreti, quasi sottraendosi da un dibattito spesso incentrato sui tecnicismi e sulle pratiche normative.

Non riesco a pensare a Bruno Gabrielli come a un urbanista; Bruno è un intellettuale a tutto tondo, capace di leggere la realtà e di trovare risposte nuove, inedite, sempre incredibilmente volte a incidere sul nocciolo del problema. La sua idea di città e di società non ammetteva giri di parole: era semplice e chiara. Così come pretendeva che semplici, chiari e comprensibili fossero i principi che stavano alla base della sua azione di pianificatore.

Bruno ha donato gran parte delle sue energie alla causa dei centri storici. Ma il suo è stato un pensiero dinamico. Una volta conseguito un obiettivo, tendeva a cercare il passo successivo: purché fosse coerente e praticabile. Non ha delineato grandi utopie; ma forse ha continuato ad indicarci quelle essenziali: una città bella, una città giusta, una città accogliente e sostenibile. Aggiungendo a tutto ciò la concretezza dell’azione quotidiana.

In questi ultimi tempi la sua attenzione era concentrata sui processi di manutenzione urbana e di governo delle trasformazioni. La grande rigenerazione che Genova ha vissuto nella prima decade di questo nuovo secolo, da lui era descritta come una grande opera di manutenzione urbana. Perché il suo interesse era nella quotidianità dell’azione di governo piuttosto che nella straordinarietà del gesto urbanistico o architettonico che fosse.

Per noi dell’ANCSA era un sicuro punto di riferimento e uno stimolo costante a proseguire una riflessione che non poteva mai permettersi soste o arretramenti. La sua eredità sta nei tanti scritti e nelle tante riflessioni che ci ha lasciato, ma soprattutto nell’esempio di uomo integro sempre attento alla realtà che lo circondava.

Oggi dobbiamo farcela con le nostre forze, ma la traiettoria del cammino da compiere ce l’ha tracciata con la sua grande lucidità e con la sua grande cultura.

Stefano Storchi


Iniziative per il centenario della nascita di Giovanni Astengo

Il Piano di Assisi

Relazione al seminario “Giovanni Astengo. I Piani”, Venezia 17 settembre 2015

Ringrazio vivamente per l’invito, e per l’indicazione del tema che mi è stata data, perché mi consente di parlare di Giovanni Astengo come di un uomo che ha avuto un innamoramento.

L’Umbria gli entrò dentro e, come ogni amore, si trattò di gioie e dolori, di esaltazioni e di depressioni.

Giovanni Astengo è vissuto nel clima politico, economico, sociale e culturale dell’Italia dell’immediato dopoguerra. Aveva trent’anni il giorno della Liberazione. Erano gli anni in cui si stava coltivando una grande speranza, che vedeva nell’immediato passato una vergogna da cancellare, ed in un non lontano futuro la realizzazione del sogno di una democrazia reale.

Un’esperienza che lasciò segno indelebile, perché ancorato a valori, e ad un’impostazione etica che non ammetteva di rinnegarli.

Sia chiaro fin d’ora: non ho alcuna intenzione di fare l’esegesi di un personaggio che ormai, da quando è morto nell’ormai lontano 1990, viene celebrato in un modo che – lo posso affermare con certezza – a lui non piacerebbe.

Giovanni Astengo privilegiava un comportamento etico, e ciò significa che ogni forma retorica od esegetica lo infastidiva. Amava la franchezza, il valore della parola, e detestava chi ne faceva un uso improprio per alterare la realtà.

Vi parlerò dunque di un Giovanni Astengo vero, quello che ho praticato per lunghi anni e che riconosco come maestro, prima per averlo avuto come docente, e poi per aver condiviso con lui numerose esperienze.

La sua vita, quasi monastica, è stata interamente dedicata all’urbanistica. Come si sa, in diversi modi: l’urbanistica come professione, come insegnamento, come pubblicistica, come attività amministrativa, come impegno politico. Tutte queste forme di attività sono state da lui praticate obbedendo ad un imperativo che aveva un preciso obiettivo: il Piano urbanistico doveva porre al centro l’interesse collettivo, ma per perseguire con successo tale obiettivo si doveva far sì che le scelte in esso contenute assumessero il valore dell’oggettività scientifica. A questo riguardo, come vedremo, il successo e la sconfitta del Piano di Assisi è vicenda emblematica.

Ma torniamo all’uomo, ed alla sua formazione intellettuale. Frequentava, nella Torino postbellica, i circoli socialisti in cui si incontravano personalità di grande rilievo, come Raniero Panzieri, e, in particolare, il gruppo lombardiano: Nerio Nesi, Carlo Mussa Ivaldi, Nuto Revelli ed altri. Era la Torino operaia, fucina di sindacalisti di rilievo, molto consapevole del momento storico che stava vivendo; assetata di conoscenza e virtuosa nei comportamenti individuali. Fra questa “educazione culturale” e l’innamoramento per l’Umbria c’è un rapporto del tutto indiretto, ma qualcosa lega tale educazione con l’immagine che lo colpirà profondamente, e che spesso ricorderà nei suoi scritti (I piani regionali, Ministero LL.PP, 1953): l’Affresco di Ambrogio Lorenzetti nel Palazzo Comunale di Perugia, e la scritta che l’accompagna: “Senza paura ogn’uom franco camini e lavorando semini ciascuno”.

Sembrava scritta per lui, perché vi è un filo rosso intellettuale che deve ancora essere indagato e che ha per lui numerosi riferimenti: l’età comunale medioevale accomuna Astengo e Piccinato nella considerazione che quella è stata l’epoca felice in cui i cittadini hanno retto direttamente il loro governo e si sono trovati a condividere le principali decisioni, al di là delle beghe interne, mai peraltro abbandonate. Le decisioni riguardanti le regole della convivenza urbana, dell’ordine nella costruzione e nella gestione della città, contenute negli statuti comunali, costituivano un riferimento virtuoso.

Nell’Affresco del Buongoverno è rappresentato un paesaggio urbano di una misura che Astengo ritiene dotata di intrinseca qualità. La “purezza” della costruzione medioevale è nel Piano di Assisi posta a confronto con tutte le costruzioni che verranno dopo.

Insomma, si tratta di un medioevo idealizzato. Astengo ci invitava a riflettere sulla straordinaria costruzione eugubina della Piazza dei Consoli, voluta dalla volontà popolare e realizzata con il contributo di ogni cittadino. Si è trattato di una comunità di non più di 6000 anime, che ha concepito e voluto un’opera straordinaria.

L’Umbria è un amore scarsamente ricambiato, ma come ogni grande amore fortemente sognato e degno d’ogni sacrificio: Giovanni Astengo si indebiterà pesantemente per l’immane lavoro che comportò il Piano di Assisi. Scriverà in proposito: “tale era stato l’impatto che la terra umbra e la città di Assisi avevano in me prodotto, da farmi accettare l’incarico di redigere il PRG ed il PP per una cifra risibile estortami strumentalizzando il fascino della «città del poverello»”. Ma per lui era un investimento: all’età di quarant’anni era il primo Piano urbanistico di cui veniva incaricato da parte di una pubblica amministrazione, ed il Piano doveva essere esemplare.

Era un atteggiamento ingenuo o c’era l’intenzione di creare insieme la sua promozione professionale ed un “modello” di Piano? Un modello, cioè, di come si deve pianificare.

Inizia con il Piano di Assisi, a mio parere non – come è stato detto – una serie di piani/monumento del sapere urbanistico, ma, al contrario, di piani/esperimento. Per tutta la vita Giovanni Astengo non ripeterà mai sé stesso, cercherà sempre ogni possibile innovazione, e questa sarà una scelta di opportunità ed anche, in fondo, di capacità “adattiva”, nel senso che in ogni situazione tentava di trarre partito dalle circostanze di fatto, sia quelle che riguardavano la città in quanto realtà fisica, sia quelle che riguardavano le condizioni politiche, culturali e socio-economiche con cui doveva fare i conti.

Quindi Assisi non è un modello, ma è ciò che di meglio, a suo avviso, si poteva fare “hic et nunc”: la stagione culturale era matura, la sperimentazione doveva percorrere a qualunque costo la strada scelta. Nell’adattare metodo e strumenti a tale sperimentazione, Astengo dimostra il suo sostanziale pragmatismo, anche se ogni volta l’intento sperimentale prende la mano e ritiene di poter andare oltre, e la forzatura rappresenta, invariabilmente, l’occasione per determinare il fallimento del Piano.

L’innovazione del Piano di Assisi risiede nella sua complessità: mai in Italia era stato prodotto un Piano urbanistico che si prendesse carico di problematiche socio-demografiche, occupazionali, abitative, economico-agricole e forestali, zootecniche, con tanto di bilancio agrario foraggero, agricolo-aziendale. Senza dimenticare i problemi industriali/artigianali, commerciali, turistici ecc. Soprattutto, mai patrimonio edilizio fu più approfonditamente indagato.

Fu un lavoro massacrante. Giovanni Astengo prese casa (e moglie) ad Assisi. Io ero suo studente all’Istituto Universitario di Architettura di Venezia. Siamo del 1957, ci invitò ad Assisi per farci vedere il Piano “in corso d’opera” (da qui, naturalmente, un altro innamoramento, il mio, con conseguente scelta del maestro cui volevo riferirmi).

Assorbimmo tutti il fermento di quel lavoro, ne fummo affascinati e coinvolti.

È assai recente (novembre 2011) una raccomandazione UNESCO che propone, nell’analisi del patrimonio storico, il punto di vista disciplinare del “paesaggio storico urbano”, riconoscendo l’assoluta inscindibilità fra città storica “fisica” e paesaggio circostante, fra città materiale e città immateriale, per la sua rappresentazione nelle arti, nella letteratura, nella storia umana e sociale.

Giovanni Astengo negli anni ’50 aveva già non solo compreso tutto questo, ma lo aveva tradotto in Piano urbanistico.

La cultura agraria di montagna, di collina e di pianura che erano all’intorno di Assisi non erano solo oggetto di analisi, ma di progetto. Nelle norme del Piano, ai fini della conservazione del paesaggio, aveva introdotto l’idea di un’azienda agraria ottimale, di cui si doveva favorire la formazione, per assicurare il presidio del territorio agricolo e la sua condizione di necessaria cornice della città storica. In particolare, il rapporto fra la città, il monte Subasio e la piana (la mitica piana umbra!) è concepito come un “unicum”, inscindibile, in un equilibrio irrinunciabile.

Quando il Piano fu presentato in Consiglio Comunale ne fu fatta l’adozione con applausi: Astengo lo ricorda per porre a confronto tale circostanza con il rigetto successivo. Un anno dopo, con l’approvazione di tutte le osservazioni, il Piano era irriconoscibile. Perché il rigetto? Piano rigido, si disse. Si era in presenza di una legge speciale che elargiva denaro per costruire. Forse che il Piano non prevedeva nuove costruzioni? No, ne prevedeva, ma non dove si voleva, bensì laddove le aree, su sua indicazione, erano state acquistate dal Comune. Ecco un primo esempio di perequazione (non proprio, era un esempio di applicazione del progetto di nuova legge cui aveva lavorato per il Ministro Sullo).

Piano rigido potrebbe anche significare “frutto di pura tecnica” senza prendersi carico di esigenze/richieste di cui erano portatori i proprietari dei terreni ed altri operatori.

La rivista URBANISTICA è il capolavoro editoriale di Giovanni Astengo. La migliore rivista di Urbanistica del mondo, è stato detto, e ciò riguarda la cura estrema, la tecnica raffinata, il rigore editoriale. La rivista pubblica puntualmente il Piano di Assisi nel settembre 1958 (n. 24-25). Tutta la complessità del lavoro vi è rappresentata, e vi si colgono le linee-obiettivo che ho già posto in evidenza. L’impostazione critica è chiarissima: il solo valore è in tutto ciò che risale, al più tardi, al periodo medioevale, riferimento essenziale di confronto con ciò che è venuto dopo: di secolo in secolo vi è un aumento di fattori negativi, e pertanto il ‘900 significherà “La rovina recente di Assisi” (è un sottotitolo contenuto nella relazione pubblicata).

Questa idealizzazione del medioevo può essere stata considerata una scelta fortemente ideologica, così come le pagine dedicate agli esempi di edifici “in contrasto” segnalati con il colore giallo che campisce la fotografia, ma è frutto della coerenza fra analisi e progetto, e dei valori prescelti.

Tuttavia, è proprio su questa coerenza che è opportuno intrattenersi, poiché tutto il lavoro di Astengo è permeato dall’ossessione dell’oggettività, e questa risiede nei convincimenti che si è costruito da sé stesso su giudizi di valore la cui condivisione è data per scontata. Non esiste, di fatto, una “oggettività” nei giudizi di valore, che nel suo caso hanno origine da scelte culturali che appartengono al periodo della sua formazione.

La sua concezione di Assisi appartiene ad una nobile famiglia di scelte culturali che si ritengono così oggettive da poter essere chiamate “scientifiche”, e la ricerca della scientificità che Astengo coltiva per rendere non discutibili le scelte urbanistiche coincide con il suo percorso intellettuale.

Nel ripercorrere la sua intera attività per l’urbanistica, ci si imbatte nei suoi scritti e nei suoi piani, in continue argomentazioni sul metodo della pianificazione.

Se si vuole comprendere le ragioni del fallimento di molti suoi piani urbanistici, o per rigetto, o per una gestione che non ne interpreta i contenuti, occorre rifarsi alla sua personalità ed alla sua appartenenza ad una generazione che confondeva l’etica con l’oggettività scientifica.

Come a dire che esiste una oggettività e che questa deve guidare, una volta conseguita, i comportamenti. Ora l’oggettività scientifica non esiste, è una chimera irraggiungibile e la sua ricerca comunque non mette in gioco quei giudizi di valore su cui convenire per porli come condizione della civile convivenza.

L’urbanistica è per sua natura il campo del conflitto, ed implica la necessità di pervenire a scelte sostenute da una maggioranza. I rifiuti che Astengo fa nascere con i suoi piani non sono aperti al dibattito conflittuale. La sua scelta è una certezza non discutibile, sostenuta non da una argomentazione, ma da una verità che è eticamente inattaccabile. Così ad Assisi, a Genova, e in fin dei conti anche a Bergamo, a Firenze e, in qualche misura, anche a Gubbio.

Non che le sue scelte fossero criticabili od errate. Al contrario, erano frutto di una tecnica e di una cultura certamente di notevole livello, ma nel renderle indiscutibili assumevano una veste soggettiva, e non certo oggettiva.

Dato che ho iniziato affermando il suo innamoramento per l’Umbria, dove possiamo trovarne le tracce? Propongo questo brano tratto dalla Relazione al Piano di Assisi (Urbanistica, n. 23-24, pag. 14) a proposito del “colore” della città: “Quel particolare colore ambrato che nasce dalla pietra rosa del monte, dal laterizio biondo e dalla luce tersa e mutevole in cui tutto il paesaggio è immerso; paesaggio, luce, colore, case e torri medioevali, piazze e monumenti illustri: un’infinità di reciproche visuali dal piano e dal colle, e, dentro alla città, nelle ampie conche di questo spazio costruito; un senso di diffusa tranquillità e di dolcezza, ecco gli elementi che concorrono a formare il volto di questa eccezionale città”.

In fin dei conti, la stessa capacità di cogliere ciò che il dibattito urbanistico coglierà assai più tardi, e cioè l’inscindibilità del centro storico costruito e del suo contesto paesaggistico, è frutto dell’innamoramento.

 

Bruno Gabrielli

Articolo pubblicato in: Comunicazioni, Documenti INU, In Evidenza, InuInforma, NL
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