Città metropolitane, i rischi di una falsa partenza
16/01/2015
Due settimane fa, all’inizio del nuovo anno, sono entrate a regime le città metropolitane italiane. E’ un punto chiave della riforma Delrio assieme al ridimensionamento del ruolo e delle funzioni delle Province. Quella di cui l’opinione pubblica si è accorta è in realtà solo una parte della riforma, ovvero la trasformazione dei nuovi enti (assieme alle “vecchie” Province) in organi in cui il personale politico viene eletto attraverso consultazioni di secondo livello: non votano i cittadini, ma i sindaci e i consiglieri comunali dei territori di riferimento. Il processo è già iniziato nei mesi scorsi, una buona parte delle Province e delle quindici città metropolitane ha già rappresentanti non eletti direttamente dai cittadini. Nel giro di pochi anni la transizione sarà completata. Effetto rilevante, almeno agli occhi dell’opinione pubblica, è la riduzione della spesa per gli stipendi di presidenti, assessori e consiglieri, visto che questi, già retribuiti per gli incarichi nei Comuni, opereranno nei nuovi enti a titolo gratuito.
Esiste tuttavia una seconda transizione, questa sì sfuggita all’opinione pubblica, che rivela forse contenuti più sostanziali e decisivi, per la sorte e la vita dei cittadini, che lo stipendio e le modalità di scelta dei rappresentanti politici. Si parla del processo di approvazione degli statuti metropolitani, i documenti che le città metropolitane hanno dovuto approvare entro la fine del 2014 nei quali si sanciscono i compiti, i poteri e le funzioni dei nuovi enti. Una maggiore autonomia dei governi dei maggiori centri urbani del nostro Paese, la possibilità data a essi di impostare politiche di crescita e innovazione tenendo conto anche del contributo e delle peculiarità di tutti i territori di riferimento potrebbe rappresentare un formidabile contributo alla crescita e alla modernizzazione del Paese. Le città sono il baricentro dello sviluppo ed è giusto dotarle di tutti i poteri necessari a consolidarlo. La stesura e l’approvazione degli statuti rappresentano insomma una grande occasione. Non sembra, tuttavia, che questa sia stata ancora colta.
Un primo indizio è rappresentato dai ritardi, più o meno giustificati: tra le Città metropolitane che ancora non si sono mosse per tempo in questo senso ci sono Venezia e Napoli, frenate nell’approvazione degli statuti dalle empasse istituzionali dovute alle dimissioni dei sindaci occorse negli ultimi mesi. Ma il problema più rilevante è l’assoluta mancanza di governo del processo. Gli statuti delle Città metropolitane approvati sinora contengono regole e disposizioni in assoluta divaricazione: stando alle regole appena emanate, alcuni enti avranno poteri più profondi e incisivi di altri. Rileva Simone Ombuen, membro del Consiglio direttivo dell’Istituto Nazionale di Urbanistica: “E’ giusto e normale che territori diversi abbiano esigenze diverse, ma qui siamo su un altro piano. La dinamica è troppo fluida, non è stata governata. Non si riscontra il tratto comune della convergenza”.
Le diversità nascono dai differenti impianti normativi e culturali. Le Città metropolitane, al momento di approvare lo statuto, si sono confrontate e rapportate con le normative regionali, le pratiche e le culture di riferimento. Così, senza guida, ne sono scaturite regole diverse. A Bologna, ad esempio, la legge urbanistica regionale di ultima generazione ha permesso di realizzare uno statuto che prevede la messa a punto di un piano strategico con una dimensione profonda e complessiva, con poteri stringenti anche in termini di programmazione e uso e spesa dei fondi europei. A Roma non è andata così, con la convivenza di un piano territoriale, di un piano rifiuti, di un piano trasporti e di un piano strategico e i poteri di spesa e uso dei fondi europei rimasti sostanzialmente in capo alla Regione.
Il risultato è evidente e parla di una chiara difformità di poteri, funzioni e potenzialità dei neonati enti sul territorio nazionale. Per la presidente dell’Inu Silvia Viviani, che nel novembre scorso ha coordinato a Urbanpromo un convegno dedicato alle prospettive e opportunità offerte per la pianificazione dalle città metropolitane, il quadro disomogeneo “conferma la necessità di una cornice strategica unitaria nazionale per orientare complementarietà e integrazione delle città metropolitane, come snodi propulsori dello sviluppo del Paese”. Ci voleva – e ci vuole ancora, per arrivare a un’eventuale e necessaria seconda fase di correzione degli statuti – l’agenda urbana nazionale, l’Inu la invoca da tempo e la nascita disordinata delle Città metropolitane costituisce uno stimolo in più per metterla a punto, che si aggiunge a quello definito dalla ridefinizione dei poteri di Stato e Regioni che deriverà dalla riforma del Titolo V della Costituzione in discussione in Parlamento.
Allo stato attuale, spiega Viviani, “si corre il rischio di avere territori a diverse velocità e diversa attenzione, e le difformità sono accentuate se si tiene conto anche delle aree interne, quelle che non rientrano nel perimetro delle città metropolitane”. Proprio la mancanza di una strategia unitaria per le città e i territori, dice la presidente dell’Inu, ovvero di un punto di riferimento di regole e priorità per i nuovi enti, ha prodotto la difformità di contenuti degli statuti.